Del dolore, della felicità della compassione

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Del dolore, della felicità della compassione – intervista al professor Salvatore Natoli a cura di Giuseppe Trotta

del dolore

  • Uno dei temi più legati a quello del male è quello del dolore. Vogliamo parlarne?

Si tratta di determinare cos’è il dolore. Per un verso il dolore si lega alla crudeltà e alla violenza della natura, presente in ogni determinazione – parlavo nel mio libro del dolore come un acconto della morte – e quindi si lega con l’inevitabilità della morte e con il fatto che l’uomo, e tutto ciò che è naturale, è esposto sin dall’inizio alla sua fine.

In forme diverse, nella determinazione c’è un conflitto tra vita e morte, anche nel momento del suo sviluppo, quando cresce. Quando la forma perviene ad una sua dimensione riuscita, non appare il dolore, c’è, invece, un cammino riuscito della vita, anche se a un certo momento apparirà l’elemento della decadenza e della morte e quindi il dolore.

Ci sono tuttavia delle situazioni ove la vita è attaccata prima del tempo. E’ esemplare in questo senso il dolore innocente. Che cosa fa senso nel dolore innocente? Perché si è colpiti quando un bambino soffre? Perché la vita tradisce se stessa, si tradisce nel suo inizio. Quando il dolore colpisce nel corso della vita appare meno visibile questo autoinganno, questo tradimento che la vita fa di sé.

C’è poi un dolore che viene dall’errore. E’ una situazione che gli antichi vedevano molto bene, che vedeva molto bene anche Leopardi: è il dolore che l’uomo produce sbagliando, produce a sé e agli altri. Si tratta di capire se questo dolore non nasca perché c’è un dolore a cui l’uomo non può sfuggire. I greci parlavano di Ate: si sbaglia perché la difficoltà oscura la mente. C’è una circolarità di dolore che genera errore e di errore che genera dolore.

C’è infine un dolore che si sviluppa nella relazione e ciò meriterebbe un approfondimento particolare: è il dolore della mente. C’è indubbiamente in questo dolore una componente biologica. La medicina riduzionistica dice che il dolore della mente è riconducibile a una patologia come le altre. Non sono d’accordo: l’uomo è anche rappresentazione, rappresenta se stesso e interviene sul suo corpo. La mente è certamente una prestazione del corpo, ma una prestazione specifica, che ha a che fare con il mondo della rappresentazione. Qualsiasi visione dicotomica dell’uomo è superficiale. Dal momento che la mente è la dimensione in cui l’uomo si rappresenta a sé e si realizza col mondo, se c’è un disturbo in questo, anche se l’origine può essere fisiologica, prende poi una sua particolare curvatura.

  • La dimensione del dolore diventa qui più frastagliata, ci vorrebbe una fenomenologia molto attenta.

Ma per venire all’etica: è chiaro che di fronte al dolore come “acconto di morte” l’uomo sperimenta l’impossibilità del mondo. Se il mondo è l’apertura delle possibilità, c’è una promessa di possibilità rispetto a cui non c’è accesso. Il dolore è in questo caso esperienza della separazione. Intanto è intorpidimento, abbassamento della percezione. Quando il dolore è troppo forte, non si ha neppure la cognizione del dolore. Per averla è necessario che il dolore sia sopportabile; quando è atroce, il dolore riduce la stessa umanità. Non bisogna essere sentimentali nei confronti del dolore. Fino a che l’uomo ha una possibilità di confrontarsi e di essere sollevato c’è una autosservazione di sé nel dolore. Nel dolore si tratta di essere all’altezza di questa prova, in cui si può essere piegati, sminuiti, fino all’estinguersi della personalità. Ci può essere, invece, un dolore in cui nella lotta con la vita (il dolore è un lusso della vita) c’è una ripresa. E’ il dolore che prova ma non stronca. In questa situazione per quanto tragica l’uomo, se è all’altezza, può cogliere dimensioni dell’esistenza che altrimenti non coglierebbe e scoprire forme di relazione umana che altrimenti non avrebbe mai vissuto. Pur nella dimensione lacerante del dolore si può ritessere un rapporto. L’esistenza è fondamentalmente relazione e quindi i fili ricompongono in qualche modo i brandelli a cui era stata risolta la vita. L’importante è qui la doppia dimensione: c’è una reciprocità tra la capacità di vincere il dolore in sé e una complementarità: altri che danno senso alla tua vita, senso per loro, e , quindi, ti impegnano a sviluppare un dovere nei confronti di te stesso, perché gli altri hanno bisogno di te. Gli altri ti motivano: si sviluppa allora la catena umana delle relazioni. Il dolore diventa in questo caso una possibilità di grande esperienza etica come capacità di comunicare se a se, ma anche come possibilità di stabilire uno scambio tra gli uomini, in cui la vita nel suo complesso tende a sanare le sue ferite.

E’ improbabile una esistenza senza dolore, ma poter trovare senso nella esistenza, nonostante il dolore, e quindi scoprire il suo fondo di bellezza, questo è possibile. Nella costruzione etica essere all’altezza della propria morte vuol dire riuscire ad avere iniziativa di fronte alle strade che si chiudono. L’uomo è un animale complesso, plurideterminato, non è orientato dall’istinto e quindi ha possibilità di reinvestirsi. Questo è un elemento che fa immaginare che, almeno in certe forme di dolore, delle vie d’uscita sono possibili.

della felicità

  • Dopo il tuo libro sul dolore viene quello sulla felicità. Parliamone, anche per non rischiare di rendere doloristica l’etica del finito..

Già nel mio lavoro sul dolore c’era la dimensione della felicità. Le due cose, dal punto di vista dell’esperienza umana, non sono separabili. Ma c’è una ragione ancora più radicale: la percezione della felicità, di questo volersi inesauribile della vita, è più originaria del dolore. La vita, nel volersi costantemente, è essa stessa felicità. La tolleranza del dolore è possibile perché c’è un si più originario alla vita. Questa è la felicità. Il dolore sarà anche più costante e diffuso nell’esperienza umana, ma è meno originario. L’esperienza della sofferenza è in qualche modo possibile perché c’è una esperienza della pienezza, se non altro come una dimensione anamnestica. Il mito l’ha magnificamente rappresentata: c’è l’età dell’oro, il paradiso terrestre. C’è una dimensione originaria di pienezza che io ho percepito, rispetto a cui la mancanza è mancanza, un “non” rispetto a un positivo. Sarà il senso materno, sarà l’esperienza prenatale, dove c’è stato questo contatto originario con la vita. Sono apparso con la vita. L’esperienza del dolore è inevitabilmente subalterna, sia pure come distacco, da una memoria immemorabile di felicità.

La felicità sta all’origine, ma non tanto all’origine come il prima rispetto al dopo, ma all’origine nel senso della nostra abitazione originaria, perché questa memoria non tramonta. Questo è il modo più esatto di pensare all’origine. L’origine non è un rapporto causale prima-dopo; nel rapporto causale ogni origine è sempre una conseguenza; l’originario come tale, invece, non ha causa. C’è questa memoria originaria, questa fedeltà alla terra, che magari genera dolore, però questa dimensione del dolore è sempre riferita ad una dimensione di pienezza. Nell’individuo scatta sempre questa ricerca della felicità, questo rinvenimento dell’origine.

In questo quadro quegli attimi di felicità, quei momenti di pienezza a cui l’uomo perviene, non sono altro che accelerazioni di istanze vitali: nella relazione con l’ambiente, nella relazione con gli altri ci sono degli eventi che sono iperstimolanti di questa vita. Come dire:la fanno brillare. Non ci vuole molto e spesse volte non si sa neanche perché. C’è una componente della felicità quasi misteriosa, fisiologica: il vento sulla pelle, una bella giornata. Chiamo tutto ciò felicità frammentaria, irruzione di luce, in cui ci si sente grati con il mondo. Piace esistere..

E’ molto più interessante questa felicità che attraversa la vita di quanto non lo sia l’attimo fusivo. Noi siamo attraversati continuamente da irruzioni di bellezza, direi quasi fisica, per cui siamo grati nei confronti della vita. Sono irruzioni di bellezza che bilanciano il dolore senza dirlo. La rete dell’esistenza è attraversata dalla sofferenza, ma anche dalla gratitudine.

Poi ci sono momenti particolari in cui può accadere che si entra in rapporto con il mondo non vivendo il mondo come limite. E’ come se il mondo venisse incontro. E’ l’esperienza dell’amore, della gioia. Ho affrontato nel mio libro le modalità diverse di sentirsi felici. Ma indipendentemente dalle modalità, l’esperienza della felicità è l’esperienza di una ascesa illimitata. E’ la parola stessa che vuol dire questo: feraxfelixfoemina ecc. E’ l’esperienza della crescita illimitata che ti fa sentire immenso, che ti dà l’esperienza di sentirti divino.

E’ il modello di Aristotele: il motore immobile vive come gli uomini quando sono felici, solo che lui lo è sempre. Questi momenti non sono costanti nella vita, ma irrompono e rilanciano la vita. Cosa succede in questo meccanismo? Succede che c’è un innamorarsi della vita come tale. La vita ha queste vibrazioni, questi alti e bassi; come dice Spinosa: ci sentiamo più o meno felici a seconda che ci espandiamo o ci sentiamo diminuiti. La vita è fatta di queste curve. Mentre siamo in quello che chiamo l’attimo immenso le curve non sono percepite, perché si è rapiti dall’attimo. Siamo noi a raggiungere la felicità o è la felicità che ci raggiunge? Quando siamo in quei momenti ignoriamo anche il tempo, ma quando poi ci muoviamo negli intervalli allora abbiamo la possibilità di comparare e queste punte di eternità diventano attimi che cadono. Dove cadono? Nella vita. A questo punto la dimensione della felicità subisce una torsione. La felicità sta nell’attimo o nella vita integrale? La dimensione della crescita è uscire dal tempo o conquistare il tempo? Allora la dimensione della felicità si configura in altro modo rispetto all’idea di compimento. L’uomo non è all’altezza dell’attimo, egli qui appare come un Dio, ma non è Dio, è necessariamente nell’ineluttabilità della caduta. Ma se l’attimo ricade, invita la vita a continuare e quindi a trovare dentro di sé la sua misura di riuscita. A questo punto la felicità diventa una dimensione molto complessa: non è la presunzione di attingere all’attimo o di trovare in cose esterne la felicità, ma è la capacità di essere disposti nella vita a quello che la vita offre. Così la felicità diventa materia dell’etica: sapere trovare il proprio ritmo, la propria misura, sapersi astenere, sapendo che certe cose non sono possibili per noi e soprattutto mantenere un’attenzione nei confronti del mondo. La caratteristica della felicità è sempre questa irruzione dell’imprevisto.

Molte volte l’uomo è chiuso in se stesso e tra le cause di questa chiusura c’è la presunzione che solo alcune cose rendono felici e altre no. Questo diminuisce l’attenzione e sviluppa l’ossessione. Molte volte gli uomini sono infelici perché non hanno questa capacità di entrare in contatto con la vita intera. Sono incapaci di innocenza, di questa dimensione fanciulla che uno deve tenere per accedere alla felicità. Questa dimensione fanciulla non è ingenua, ma qualcosa che l’uomo deve conquistare nel suo cammino. L’uomo deve avere questa capacità di purificazione di sé. Da qui la necessità di governo di sé, delle proprie passioni, di stacco anche. Il distacco è una dimensione per cui tu non ti appiattisci su una cosa sola. In questa dimensione la vita si arricchisce. Ecco allora il modello aristotelico: felice è una vita intera. La felicità nell’ attimo coinciderebbe inevitabilmente con la morte. Il tema del dolore rientra ed amministrato in questa prospettiva di riuscita della propria vita intera. La lezione nicciana: non dobbiamo intendere la felicità soltanto nei termini della fruizione edonistica, ma anche nella dimensione della vittoria. Il superamento dell’ostacolo è un elemento della felicità, allora la felicità è contrassegnata dallo sforzo, dove c’è una fatica che poi addiviene a una riuscita. Felicità non è solo fruire, ma anche vincere.

  • Mi pare che queste tue osservazioni riguardino una felicità del singolo a prescindere dai contesti dell’epoca. Un singolo capace di meraviglia, di cogliere tutte le opportunità, capace di vincere e vi vincersi..

In queste riflessioni sulla felicità ho considerato solo il singolo, ma quando parlo di meraviglia, di attenzione, di ascolto, della vita concreta felice (le cose che si vogliono, le relazioni che si scelgono) tutto ciò è riferito a un contesto. Questo era presupposto: il rapporto tra epoche e vite. Le vite appartengono sempre a delle eternità, le eternità sono le epoche.

Le modalità di essere felici di un uomo del IV secolo a.C., di un uomo del Medio Evo o di un nostro contemporaneo sono assai diverse. L’elemento che permette la comparazione sta nel sentirsi realizzato, ma la concretezza storia di questa realizzazione si svolge nell’epoca. Ecco perchè possiamo fare una storia della felicità. Io ho fatto finora una teoria della felicità (che cosa succede quando si è felici) ma si può dare anche una versione concreta di questo essere felici, farne una storia, come si può fare una storia del dolore. Tutto il mondo delle relazioni è allocato storicamente.

Sottolineerei, invece, una cosa molto importante: non si può essere felici da soli. Il mondo viene incontro: non è solo il mondo fisico, è l’alterità, la relazione con gli altri. Una relazione che desertifica ciò che le sta intorno abolisce la sua stessa possibilità di crescita. E’ il delirio di onnipotenza rappresentato dalla lupa dantesca: mangia lo spazio che dovrebbe farla vivere.

Aristotele aveva intravisto questo quando diceva che caratteristica della felicità è l’autarchia., il non dipendere dall’esterno, il trovare nel proprio sé l’elemento di autosufficienza. L’autarchia non vuol dire fare a meno della relazioni, vuol dire che, rispetto alle difficoltà che ci sono nel mondo, alle tante cose che sono fuori dalla nostra portata, bisogna trovare in se stessi un equilibrio e quindi una forma di autorealizzazione che può funzionare indipendentemente dal fatto che si ottengono o meno alcune cose. Questa “autarchia” è in tal senso strettamente legata alla filia. Caratteristica della felicità è la diffusione, se questa non c’è, essa assume più la forma della compensazione che della felicità. In un mondo in cui tutto cresce, tu cresci meglio. Il problema non è solo quello di essere felici con gli altri ma di promuovere una felicità pubblica.

Bisogna adoprarsi perché il mondo cresca, ma siccome succede che, nonostante che gli uomini si adoprino, il mondo non cresce, l’uomo, pur operando perché le condizioni della felicità siano generalizzabili, deve trovare un suo spazio di autorealizazzione. Deve evitare di fallire con ciò che fallisce, deve operare per la riuscita, ma deve trovare anche una capacità di sottodeterminarsi, di raccogliersi.

Paradossalmente potrebbe anche il sacrificio, però è una operazione unilaterale che uno decide da sé. Non è detto che il suo sacrificio, che magari lo rende felice, ottimizzi oggettivamente il mondo. Potrebbe anche prendere la decisione unilaterale di sperdersi tutto, però sa bene che in questo spendersi tutto trova una forma della sua autorealizzazione, e non è detto che dalla sua morte il mondo diventi più buono. C’è un delirio di onnipotenza anche in questo. torna su

della compassione

  • Toccherei a questo punto il tema della compassione. E’ un tema eminentemente cristiano: si ha capacità di compassione solo quando si è andati oltre l’amor sui. Solo allora il dolore e la felicità del mondo sono presenti nella loro trasparenza. Simone Weil ha intravisto come poche altre persone questa dimensione: una comprensione senza giudizio.

Già avevo accennato a quell’operare perché il mondo cresca e si sviluppi. Mettersi in relazione con l’alterità dell’altro; un tempo si diceva con l’universale, ma era termine questo che poteva dare l’idea di una forma pattizia o semplicemente giuridica della relazione. L’alterità vuol dire invece contatto con la fisicità dell’altro, con la sua concretezza, con il suo essere prossimo. Nel prossimo l’universale si fa concretamente presente. Questa dimensione della prossimità ha già una sua anticipazione nel mondo antico, anche se sono d’accordo che il cristianesimo la radicalizza. E’ questo un aspetto del cristianesimo, secondo me, eversivo, che attrae ed impegna anche chi non è cristiano, per questo a volte mi definisco cristiano. Questo mi pare il lato del cristianesimo che ha una sua fecondità, ma anche una sua grande difficoltà.

Questa possibilità di dono illimitato aveva nella pietas degli antichi una sua anticipazione. La pietas aveva la caratteristica della “custodia”, la chiamavano eusebeia, dove la caratteristica era tanto il dono quanto il rispetto, il timore, l’inviolabilità dell’altro. Ci sono delle cose che non possono essere violate: la santità della vita, per esempio. L’inviolabilità, la cura, il rispetto non è ancora dono, però si muovono in questa direzione. Sentire che nel mondo c’è qualcosa di sacro, di divino, questa è la pietas. La compassione è questo: c’è qualcosa di sacro, di divino che merita attenzione, rispetto, devozione.

La pietas prepara una dimensione che nel cristianesimo si radicalizza: prendersi in carico il prossimo. Io insisto molto sulla differenza abissale tra carità e solidarietà. La carità vuol dire farsi carico dell’intimità dell’altro nella sofferenza ma anche nella gioia. Essa comporta il sentire l’alterità come una dimensione attraverso cui si realizza se stessi; possiamo chiamarla fraternità, agape. E’ quello che rimarrà del Regno. E’ sintomatico questo: laddove c’è la gloria trionferà la carità. La carità avrà il suo massimo di splendore nel momento in cui non ci sarà più il dolore. La carità va insomma oltre la sofferenza, non si identifica con il prendersi cura di chi soffre. Certo, in questo mondo dove la sofferenza ha un peso e una costanza maggiore, l’istanza dell’altro si realizza più in termini di aiuti che di gioia; però la relazione all’altro deve essere libera. Forse che se l’altro non soffre non lo si sente più?

La solidarietà è una modificazione dell’idea di carità, può esserci una solidarietà che non ha nulla a che fare con l’alterità. E’ bene essere solidali perché c’è un rapporto di reciproca utilità. La solidarietà prende la forma di una assicurazione sociale che se gli uomini non possono ottenere attraverso le istituzioni, coltivano attraverso le associazioni. Cose eccellenti ma che non hanno nulla a che fare con la carità.

della differenza di genere

  • Perché non parliamo qui dell’alterità femminile? Il tema della differenza di genere non è mai apparso in queste tue riflessioni sull’alterità. Mi pare che sei stato coinvolto ultimamente in questo dibattito..

Gli studi storici delle donne hanno documentato la dimensione subalterna della donna nelle società precedenti, una subalternità che non è stata caratterizzata solo da sopraffazioni e violenza, ma certamente dalla distribuzione dei ruoli sociali. Tuttavia questa problematica della differenza c’era anche nel mondo antico, anche se era percepita solo al passivo. La differenza femminile era terribilmente sentita, la subalternità della donna era centrata proprio sulla percezione della sua differenza sessuale e antropologica. Se c’è un tempo che ha avvertito l’emergenza della differenza femminile, questo è proprio il mondo antico. Solo che nel mondo antico era assente il senso della complementarità. Il potere, il governo era in mani maschili.

Quello che nella cultura della differenza di genere è interessante non è tanto l’emergere della differenza stessa, ma il suo emergere al positivo, una differenza senza subalternità e caratterizzata dalla forma della complementarità. Come non essere d’accordo sul fatto che il corpo, la mente, la sensibilità della donna esprimono uno sguardo diverso sul mondo? Questa è una ricchezza. Nella relazione uomo-donna c’è qualcosa di irriducibile, di non sintetizzabile. Quello che bisogna evitare è trasformare l’apparizione, l’inesauribilità dell’altro, in una chiusura. La differenza diventa allora separazione e, anziché una apertura a segni, messaggi, e quindi uno sprofondamento nella alterità per cercare di esplorarla (l’esplorazione del femminile da parte del maschile e del maschile da parte del femminile), si riduce a una resistenza che separa. La differenza intesa in questo senso da esplorazione dell’altro si traduce in assoluta inimicizia. Questa trasformazione della differenza in scissione e separazione è avvenuta, a mio avviso, per una politicizzazione della differenza. Postulare la differenza non come una dimensione di reciproca esplorazione di segni e si sensi ma come qualcosa di assolutamente inconciliabile mi pare una maledizione del peccato.

  • Mi pare che tu parli più della differenza in generale che della differenza di genere..

La differenza di genere si colloca nel quadro generale dell’eticità delle relazioni. Rapportarsi all’altro senza ridurlo a sé, il lasciare essere l’altro con tutte le sue caratteristiche, con la sua corporeità: bello e brutto, giovane e vecchio, ricco e povero.. In ciò ha ragione Levinas: quando ti si presenta l’altro immediatamente ti mette in una relazione etica per il semplice fatto che c’è.

  • Si, ma qui l’altro è la donna, il femminile..

L’altro ti impone una dimensione etica: lo puoi uccidere, lo puoi amare; anche se l’ignori, l’esistenza dell’altro condizione la tua posizione. L’altro non lo esaurisci, ti si annunzia, è una intenzione lui stesso. Che mondo c’è dietro quel volto? Che pensa? Chi è? L’altro è una apertura. Presenza e apertura. Questo vale in genere per la relazione di alterità. Il femminile si presenta con quelle caratteristiche di differenza, come corpo, sensibilità, gesto, modo d’essere, di esprimersi che lo fanno una parte di mondo. Nel femminile ti si rivela qualcosa che tu non sei. Alla differenza di alterità si aggiunge qualcosa di più e di diverso, il femminile appunto.. Un altro mondo, un’altra parte di mondo che non si può comprendere in una alterità generica. Tu sei chiamato a rapportarti a un diverso da te. Il problema è di stabilire contatti, risonanze e quindi attingere alla ricchezza di chi vede il mondo diverso da come lo puoi vedere tu, non solo emotivamente ed esistenzialmente, ma anche cognitivamente. La percezione di queste diversità ti fa crescere.

Questa differenza, lo dicevo prima, non è stata notata solo adesso, la si è notata da sempre, solo che era subalterna. Nel mondo greco il modello etico è tutto maschile, la donna non era soggetto di etica. Gli antichi vedevano una differenza naturale tra uomo e donna.

Perché allora non c’è stata un’etica che facesse proprio lo sguardo di questa differenza? Nel tuo discorso l’etica appare come una sorta di teatro maschile a cui di volta in volta si aggiungono nuovi protagonisti senza che cambi la scena..

In una prima fase il movimento femminista è sceso in una competizione con gli uomini, il problema era allora quello di avere diritto di parola. La prima lotta femminista era rivolta alla conquista di diritti pubblici.

A me pare che il discorso della differenza, come si formula adesso, riprenda la percezione antica dell’alterità femminile, ma fuori dalla passività e dalla subalternità. Nel mondo antico la donna era talmente differente da non prevedersi un’etica per lei, la differenza era fatta valere come assoluta secondarietà. La donna era una sorta di copia sbiadita di umanità maschile.

Non sono d’accordo che il “teatro dell’etica”, come lo definisci, sia lo stesso con l’entrata in scena della donna. Nel momento in cui questa differenza accede al diritto di parola, esprime una soggettività che non è più incasellabile, non è più reprimibile.

Va detto per chiarezza, che la parola “repressione” va intesa storicamente. Probabilmente le donne dei secoli scorsi non si sentivano represse, erano convinte del loro ruolo, lo accettavano interiormente, era quello che stabiliva la loro identità. La repressione presuppone sempre la libertà, l’alternativa. Quando non si dà alternativa, non si dà repressione.

Questa irruzione della differenza, che riesce a farsi valere come tale e quindi a portare ad espressione un linguaggio e una modalità di esistenza, cambia completamente i rapporti etici. Se l’etica è attenzione all’altro per quello che esso è, l’irruzione dell’altro rovescia la partita. Man mano sono cambiati i ruoli, i rapporti sociali. E questo indipendentemente dalla cultura della differenza di genere. La parificazione dei diritti, l’autonomia del lavoro ha finito per riscrivere i rapporti tra uomo e donna nella società, ha ruiproblematizzato la famiglia. Tutto ciò non tanto attraverso una teoria della differenza, ma attraverso una pratica della differenza. torna su

in una società post-cristiana

  • Entriamo a questo punto in uno snodo decisivo del tuo discorso: siamo in una società post-cristiana, in un’epoca post-cristiana..

Io ritengo che sia esistita davvero un’epoca cristiana. A volte sento dire alcuni cristiani che duemila anni di cristianesimo sono stati un errore, che ancora non si conosce chi sia stato veramente Gesù, che solo loro sono in grado di spiegarcelo. A me sembrano dei nicciani rovesciati. E’ assai problematico dire che il cristianesimo è la storia di un puro errore, ma, ammesso pure che sia stato un errore, esso ha modellato una civiltà. In questa distruzione di 2000 anni di cristianesimo c’è una ingenuità che suscita qualche diffidenza su questi nuovi cristiani senza storia e, in fondo, senza chiesa. C’è al fondo la riproposizione di un Cristo come piace a questo o a quel gruppo, il cristianesimo di questo o di quello.

La cristianità è davvero esistita, essa era centrata sul concetto di status viatoris e, quindi, in una idea di vita del mondo alla luce della redenzione. La luce della redenzione ha posto il mondo sotto il segno della transitorietà: questo mondo deve finire. Redenzione vuol dire riscatto da dolore e dalla morte. Questo la cristianità l’ha creduto. L’epoca post-cristiana, anche se possono esistere dei credenti, questo non lo crede più.

Ho sostenuto che fino ad una certa epoca l’umanità si è sentita orfana di Dio: la grande decadenza aveva bisogno di questa idea disperata di salvezza, il fatto che non fosse possibile, non vuol dire che non ne rimanesse la lusinga. Non a caso oggi io parlo di una “secolarizzazione della secolarizzazione”. L’umanità sente più il bisogno del benessere che della salvezza. Nella condotta media gli uomini non hanno bisogno di essere salvati, ma di stare meglio. L’idea di un mondo redento dal dolore e dalla morte non è più diffusa.

  • Vogliamo spiegare meglio questa “secolarizzazione della secolarizzazione”?

C’è stata una prima secolarizzazione, quella della modernità: essa si basava sulla convinzione che da una salvezza fuori dal mondo si potesse acquisire una salvezza nel mondo. Politica e tecnica sono state le protagoniste di questa fase. La seconda secolarizzazione investe l’idea di salvezza in quanto tale: la salvezza diventa irrilevante. Questo è lo spazio della post-cristianità. Quale etica in una società in cui c’è più riferimento alla salvezza? L’etica è quella di dare agli uomini la possibilità di una realizzazione intramondana, individuale e collettiva, che permetta in generale vite riuscite in tutte le dimensioni. Perché questo possa avvenire ci vogliano almeno due condizioni: innanzitutto quella che io chiamo l’etica del finito, l’abbandono, cioè, di ogni idea di onnipotenza. L’idea di una libertà incondizionata, che è l’unico valore rimasto dei vecchi valori, se si sposa all’idea di onnipotenza può diventare perversione; in secondo luogo ciò che resta dell’antica dimensione della charitas ( e in ciò la valorizzazione del cristianesimo) che irrora la storia anche senza riferimento alla trascendenza. Questi mi paiono i punti di leva entro cui si può elaborare una figura etica che corrisponda alla nostra felicità e quindi allo stare insieme degli uomini in quest’epoca.

  • Post-cristianità e post-modernità nel tuo discorso coincidono..

Il nodo è nella prima secolarizzazione. Il moderno non abbandona l’idea di salvezza. Essa è certamente una salvezza mondana, che non fa più riferimento al Dio biblico. Io leggo la modernità come una tensione. Metto per questo insieme l’interpretazione di Loewit e di Blumenberg: in quanto ambizione di salvezza mondana, il moderno è erede del cristianesimo; in quanto mette in opera una razionalità esploratrice, che mette in campo mezzi e abolisce fini. I mezzi finiscono per complessificare i fini e quindi aboliscono l’idea di un destino della storia.. L’immissione dei mezzi non risolve i problemi, li sposta. C’è una complessificazione della società, della emancipazione, della mobilità che non erano previste. Il moderno da un lato vuole chiudere la storia, vuole compirla, dall’altro sviluppa complessità. Emblematico da questo punto di vista è Hegel che accumula figure di differenza in una schema che le porta all’unità. L’esplosione è inevitabile tra una tendenza che voleva portare a compimento la storia ed un’altra che sviluppa invece differenze. Differenze nella stessa idea di progresso tecnico. L’idea primitiva del pregresso, che rimane baconiana fino al ‘900, era quella che Leopardi definiva delle “magnifiche sorti progressive”: la scienza poteva indurre soltanto processi di emancipazione e non produrre controfinalità. Oggi, invece, sta avvenendo proprio questo. La modernità, così, si rompe. Si ha allora la secolarizzazione della secolarizzazione. Il progetti moderno perde definitivamente la sua pelle cristiana. nel mondo contemporaneo non si capisce più la parola salvezza. Salvezza da che? Si vuole la casa, il viaggio, l’automobile ecc. Non si sente più bisogno della salvezza.

  • Non si ritorna però neppure all’”epoca tragica dei greci”..

La dimensione del tragico, dell’essere all’altezza della propria morte, la presa in carico del dolore non ci sono più in una società che cerca solo assicurazioni collettive. La ragione però più profonda di questo oblio per cui non si dà più dimensione del tragico è la caduta dell’idea di natura, di fusis, di cosmo. Noi siamo in una situazione di acosmismo. Un antico vedeva il rapporto con la fusis nella pianta, nel cielo, nel sole. Oggi questo sentire può essere recuperato come un modello: oggi si diventa tragici, non si è tragici.

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