La nuova “religione” della meritocrazia, disuguaglianze e “neo-aristocrazia” con Mauro BOARELLI.

Contro l'ideologia del merito, Mauro Boarelli. Locandina.

Quarta lezione del Corso di Formazione alla Politica 2023-2024
POLITICHE DI GIUSTIZIA
La disuguaglianza nella società contemporanea.

Il merito questa parola così affascinante ed ambivalente, rappresenta veramente un’opportunità? Oppure è una locuzione seducente, dove però alla fine gli effetti negativi si appalesano spesso in misura superiore rispetto alle positività attese? I suoi connotati assomigliano sempre di più a quelli di una “ideologia” di supporto a logiche più o meno liberiste, che intaccano però il principio costituzionale di uguaglianza, e che forse non sono nemmeno così funzionali all’aumento del benessere complessivo della comunità.

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Luca Caputo, presidente del Circolo Dossetti, presenta la lezione – 6:40
Andrea Rinaldo introduce Mauro Boarelli – 25:41
Relazione di Mauro Boarelli – 51:54
Interventi e domande dei partecipanti in sala e online – 27:41
Risposte di Mauro Boarelli – 16:22
Interventi e domande dei partecipanti in sala e online – 19:26
Risposte di Mauro Boarelli e chiusura della lezione – 14:51

C’È BEN POCO MERITO NEL MERITO

      Introduzione al testo “Contro l’ideologia del merito” [1] 
di Mauro Boarelli, a cura di Andrea Rinaldo.

   Uno.     La genesi della cultura meritocratica

Se per Papa Francesco: “…Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata “meritocrazia”. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il “merito”; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono: il talento non è un dono secondo questa interpretazione: è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi[2]…”, per Mauro Boarelli studioso di Storia che vive e lavora a Bologna dove si occupa di progettazione culturale, il merito è una ideologia alla quale bisogna opporsi.  Che la locuzione di “merito” sia suggestiva è innegabile, ed infatti è diventata parte del discorso pubblico, promettendo di migliorare la vita ed il lavoro di molte persone, per quelle appunto definite “meritevoli”, cancellando posizioni di favore e clientele, ma anche negando le diverse condizioni di partenza.   Dice Boarelli: “...La crisi del sistema politico che ha storicamente garantito il funzionamento di un settore pubblico privo di solide basi etiche e civili ha alimentato la percezione della meritocrazia come possibile strumento di riscatto…[3],  concetto quello di “meritocrazia” allogeno importato dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra, e per indagarne il contenuto l’autore si sofferma su due testi della letteratura distopica degli anni cinquanta del secolo scorso, “Piano meccanico” di Kurt Vonnegut e “L’avvento della meritocrazia” di Michael Young.  L’assioma di partenza è quello che gli uomini sono per natura ineguali, e che ai migliori quindi debbano essere attribuite condizioni di vita qualitativamente proporzionate alle loro capacità.  Fu Alan Fox ad usare il termine “meritocrazy” in una rivista della sinistra inglese sempre negli anni cinquanta, ma con una forte connotazione negativa dato che la meritocrazia era la causa di una non condivisibile divisione sociale. Forse il punto di forza più potente dell’ideologia del merito sta nel fatto che i perdenti sono resi consapevoli della “giustezza” della loro sorte, ed in questo modo accettandola ne sostengono il paradigma. Elemento di supporto alla teoria del merito è quello del “capitale umano”, concetto elaborato in parte da economisti neoliberisti appartenenti alla cosiddetta “Scuola di Chicago”, partendo dal presupposto di allora che coloro che studiavano di più in generale conseguivano poi un reddito più elevato.  Quindi chi ha investito sul proprio capitale di conoscenze avrà la concreta possibilità di maturare “interessi economici” in futuro, il lavoratore  in questo senso non è più semplice “forza-lavoro” ma per così dire è “imprenditore di se stesso”;  la trasformazione diventa antropologica poiché il tessuto sociale è il risultato della somma delle “imprese” corrispondenti ad ogni individuo collocato nel mercato globale. 

   Due.     Capitale umano, competenze, test

Il concetto di “capitale umano” esce quindi dallo stretto ambito disciplinare economico e diventa un  riferimento per adottare un modello di comportamento vincente, giacché accosta la natura ontologica dell’individuo alla prospettiva di una “messa a reddito” delle proprie abilità. Peraltro il modello può essere applicato all’ambito dell’istruzione, poiché la stessa può essere immaginata come una modalità di investimento per il futuro; anche l’educazione diventa quindi una forma di economia, con il conseguente abbandono della costruzione di “saperi critici” in funzione di quelli strumentali.  Ecco quindi la necessità di accostare al “capitale umano” la locuzione di “competenze”, cioè di un lessico che ha molti riferimenti con il concetto di “merito”. Parola fumosa quella rappresentata dalle “competenze”, che sarebbero quella capacità di mobilitare risorse individuali ed esterne per affrontare situazioni sfidanti.  Tuttavia questo modello è stato già sussunto dall’Unione Europea a partire dalla metà degli anni novanta del XX^ secolo; in particolare lo stesso è contenuto nel Libro bianco, Crescita, competitività, occupazione, ma anche con riferimento al mondo della scuola nel Libro bianco, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva; risulta quindi del tutto evidente la visione utilitaristica e finalizzata a logiche imprenditoriali della conoscenza.  Il modello dell’imprenditorialità richiesto è quello delle competenze che servono per ottenere un lavoro e per mantenerlo, di adattamento alle inevitabili evoluzioni, di relazioni umane funzionali a questi scopi, e che consente in ultima analisi il benessere economico, “…Tutto, in definitiva, dipende dall’individuo, dalle sue capacità dal suo atteggiamento positivo. Coloro che non avranno «successo nella vita» saranno gli unici responsabili del proprio fallimento…[4] chiosa Mauro Boarelli.   La scuola che si adatta all’approccio didattico per competenze rinuncia ad un sapere critico finalizzato ad incidere sulla realtà, mentre così facendo accompagna invece gli individui verso una condivisione dello status quo generato dal mercato, riaprendo una dicotomia tra le finalità sociali e quelle personali delle singole azioni.  Nell’universo dell’istruzione le competenze vengono misurate attraverso test dei quali forse il più conosciuto è quello denominato “Invalsi”, con il corollario di una restrizione delle interpretazioni immaginabili per uno stesso fatto, riconducibili soltanto alla risposta ritenuta esatta, a fronte delle ambiguità contenute nel ventaglio delle possibilità proposte.   Il trend è quello di “isolare, frammentare, uniformare” al punto che la mente poi risulta “prigioniera”, ed i test sono “utili” in questa prospettiva; il loro scopo è quello di misurare le competenze, ma per fare questo inevitabilmente devono scomporre, semplificare, standardizzare i dati tratti dalla realtà, in modo da “oggettivizzarli”.                                                            

  Tre.       Le tecniche dell’ideologia del merito

In buona sostanza i test somministrati e prodotti da istituti esterni al contesto formativo nel tentativo di oggettivare la valutazione – che è comunque necessaria – spersonalizzano il processo educativo rompendo la relazione tra docente e discente, che è fondamentale per l’accrescimento cognitivo. Negli Stati Uniti poi, patria dei test per antonomasia, la contraddizione tipica delle democrazie liberali tra principio di uguaglianza e fattualità delle diseguaglianze sociali riscontrabili, veniva (e viene) per così dire “cristallizzata” attraverso l’uso massiccio appunto di test, che in questo modo spogliano le diseguaglianze dalle cause politiche, sociali e storiche ad esse ascrivibili.  Anche l’università è stata investita da tale processo, e mediante l’ “Anvur” l’istituto ideato ad hoc, la valutazione della qualità della ricerca è diventata così una combinazione quantitativa ed autoreferenziale tra il numero di pubblicazioni e le citazioni ottenute.  In pratica è l’estensione al settore pubblico di forme organizzative che sono proprie del mondo del privato, dopo aver dissodato il terreno nel tempo delegittimando a più riprese la pubblica amministrazione.  Un caso emblematico tutto italiano è stato la trasformazione delle USSL in aziende, gli indicatori della  performances di tipo quantitativo (che sono peraltro una scelta politica), non valutano il processo che è dato dalla cura e dalla sua qualità, determinando una manipolazione dei risultati attesi, ed evidenziando il carattere ideologico dell’approccio. In questa direzione la forza-lavoro si trasforma nelle più plastiche “risorse umane”. Le prestazioni lavorative diventano simili ad una merce, le procedure oggetto di misurazione stabilendo delle graduatorie di “merito”, inducono i diversi attori pubblici a gareggiare tra loro, così come gli stessi lavoratori che sono messi in competizione.   “…I tre pilastri dell’ideologia del merito – capitale umano, competenze e valutazione standardizzata – poggiano sull’idea che il mercato rappresenti la forma «naturale» di organizzazione della società…[5] afferma Boarelli.  A differenza di una società classista quella impostata sul merito non esclude in teoria nessuno a priori; tuttavia la razionalità economica applicata ad ogni aspetto della vita comunitaria muta i rapporti tra i consociati, i quali sono avvolti da un manto di competitività permanente giacché ciascuno deve affermare se stesso ed i propri meriti.  Lo Stato in questa nuova articolazione liberale o meglio neoliberista, non è più il punto di equilibrio tra pubblico e mercato, ma esso stesso si prodiga per creare nuovi mercati laddove prima non esistevano (nella scuola, sanità, pubblica amministrazione). In buona sostanza il brodo in cui si sviluppa la cultura del merito è costituito dal massimo rendimento (economico) del proprio capitale umano impiegato.

Quattro.   Giù la maschera liberisti!  

Il linguaggio corrente non è neutrale ma funzionale alla teoria che supporta: l’avere mutuato dall’economia un lessico settoriale unito a quello tecnico specialistico finisce per determinare uno sguardo appunto “particolare” sulla realtà, segnatamente “anticritico”, mediante l’utilizzazione ripetuta di una specie di “neolingua” orwelliana che pian piano sostituisce qualsiasi interpretazione “eretica” della realtà.  La “trasparenza” tanto invocata serve a colmare il vuoto di fiducia nelle istituzioni, mentre uno spazio pubblico “depoliticizzato” poiché governato in modo tecnocratico, spiana la strada ad una prorompente nuova burocratizzazione che non è come sembrerebbe a prima vista ostativa alle logiche di mercato. La funzione della burocrazia è “capovolta”: non sono le istituzioni che la determinano, ma sono le procedure burocratiche indipendentemente dalla loro efficacia che danno legittimazione alle istituzioni.  Il tema del controllo dei saperi e delle tecniche è un nodo cruciale per la democrazia, così come il rapporto con la politica e la cittadinanza. Il sostegno dell’ideologia del merito è dato contemporaneamente da un linguaggio settoriale, dalla retorica della trasparenza, dalla burocrazia, dal dominio dei tecnici, calati in un contesto dove individualismo e negazione dei conflitti caratterizzano il tessuto sociale; il tutto in correlazione anche alla mancanza di forme di rappresentanza politica e sindacale, che per certi strati sociali avrebbero consentito la condivisione comunitaria delle rivendicazioni.  Il senso di colpa è amministrato e ricondotto alla prestazione individuale poiché:  “…Chi perde, chi non ce la fa ad avere «successo nella vita» deve essere considerato l’unico responsabile del suo fallimento, perché non ha saputo cogliere le possibilità che  il sistema del merito gli ha messo a disposizione…[6], conclude l’autore di origini maceratesi qui con noi stamattina. L’ “uguaglianza delle opportunità”, altro slogan must di sostegno dell’universo meritocratico, si rivela per quello che è, un motto senza un reale fondamento poiché nel migliore dei casi le opportunità sono quelle decretate dalle condizioni di partenza, la cui livellazione nella pratica operativa risulta quasi sempre impossibile.  Il conflitto sociale è negato perché il merito fa leva sull’azione individuale ed individualistica; la sostituzione del conflitto con la competizione ne snatura il contenuto costruttivo e collettivo, esistono così soltanto due categorie:  “i meritevoli e i non meritevoli”.  L’ideologia del merito è penetrata in profondità nella società, accomunando posizioni politiche di destra e di sinistra, e avvalorando quel pensiero “ad una dimensione” di Marcusiana memoria che ne sostiene il paradigma. 

Cinque.    C’è poco merito nel merito 

L’ideologia del merito ha prodotto come conseguenza una “società del merito”?  Non sembrerebbe proprio ci sia stata nel tempo una evidente mobilità sociale, “…Gli Usa e la Gran Bretagna – paesi che presentano forti disparità economiche (e nei quali l’idea del merito è più antica e radicata) – sono quelli che presentano una eredità sociale più accentuata, in particolare nel confronto con i paesi scandinavi, dove la tendenza è opposta. In Italia l’ereditarietà sociale è ugualmente marcata…[7] argomenta Boarelli.  Così come analizzando il mondo della scuola – rispetto al quale il nostro autore ha dedicato particolare attenzione – la possibilità di accedere ai più alti gradi degli studi è ancora fortemente condizionata dall’appartenenza ad una classe sociale inferiore. Inoltre sono pure evidenti le discriminazioni di genere e razziali, e le disuguaglianze, cosicché l’era del merito coincide nei fatti con quella delle disuguaglianze. La giustizia ricercata nell’ “uguaglianza delle opportunità” ha a che vedere certo con il contenuto dell’articolo 3 della Costituzione italiana, cioè del rimuovere da parte della Repubblica quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, inteso in questo contesto però come un processo collettivo e non individuale come invece invocato nella temperie del merito.  Disquisire su questa parola è come se “…ci interroghiamo – in definitiva – sulla democrazia: sulla sua crisi, sulle tensioni che la attraversano, sui pensieri e le azioni che l’hanno indebolita…”[8] afferma Boarelli. Sull’Italia fondata sul lavoro e non sull’aziendalizzazione di ogni ambito sociale, sulla destra e sulla sinistra in politica, che secondo la definizione che ne diede Norberto Bobbio essenzialmente differiscono tra loro sul concetto di uguaglianza. Ed è piuttosto significativo – secondo Boarelli – che la critica al merito non provenga attualmente da ambiti progressisti ma ad esempio per bocca del Pontefice.  Già Bruno Trentin ebbe a sottolineare come in una società gerarchica il merito possa premiare spesso la fedeltà, la lealtà verso i superiori, l’obbedienza, in luogo della prestazione lavorativa.  La crisi del concetto di uguaglianza – che non è assenza di differenze – è anche una crisi della democrazia, che degrada verso una sorta di “neoaristocrazia”, cioè di potere dei migliori.  Il merito è quindi un’ideologia che non è costruita intorno ai cittadini, ma agli utenti/clienti.  Essere cittadini vuol dire partecipare ai processi decisionali, mentre non c’è alcun merito nell’essere nati in una certa famiglia, in una certa città, in un certo posto nel mondo; inoltre alcuni eventi sono pure determinati dal caso, dalla fortuna, dalle opportunità, rispetto ai quali sarebbero necessarie semmai adeguate politiche redistributive compensative.  Verrebbe da concludere proprio con le parole taglienti e profetiche di quel poeta della canzone che è stato Fabrizio de André, che non ha mancato di farci riflettere su ipotesi non troppo convenzionali come quella che ci sia “…ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore…”, asserzione che viene ripresa qui contro l’ipocrisia imperante del merito come motore del successo individuale. 


[1]       M. Boarelli,  Contro l’ideologia del merito, ed. Laterza, Bari-Roma, 2019.

[2]       Discorso del Santo Padre Papa Francesco, stabilimento Ilva di Genova, 27 maggio 2017, Libreria Editrice Vaticana, ripreso in M. Boarelli,  Contro l’ideologia del merito, ed. Laterza, Bari-Roma, 2019, p. 108  

[3]       M. Boarelli,  Contro l’ideologia del merito, ed. Laterza, Bari-Roma, 2019, p. 3

[4]       M. Boarelli,  Contro l’ideologia del merito, ed. Laterza, Bari-Roma, 2019, p. 20

[5]       M. Boarelli,  Contro l’ideologia del merito, ed. Laterza, Bari-Roma, 2019, p. 50

[6]    M. Boarelli,  Contro l’ideologia del merito, ed. Laterza, Bari-Roma, 2019, p. 81

[7]    M. Boarelli,  Contro l’ideologia del merito, ed. Laterza, Bari-Roma, 2019, p. 104

[8]    M. Boarelli,  Contro l’ideologia del merito, ed. Laterza, Bari-Roma, 2019, p. 114


mauro boarelli

Mauro Boarelli (Macerata, 1962) ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia presso l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Si è occupato di storia dell’Italia contemporanea ed ha dedicato una monografia al rapporto tra militanza politica, scrittura popolare e forme di disciplinamento (La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti 1945-1956, Feltrinelli, 2007). Collabora alla rivista “Lo straniero”, per la quale ha curato – fra l’altro – una serie di interventi sul rapporto tra ricerca storica e formazione del “senso comune storiografico” e sul ruolo innovativo della “microstoria” (consultabile on line il dialogo con Carlo Ginzburg). Per la rivista di educazione e intervento sociale “Gli asini” ha curato il numero  monografico su Valutazione e meritocrazia. Sull’argomento ha inoltre scritto L’inganno della meritocrazia (“Lo straniero”, aprile 2010).
Attualmente si occupa di programmazione culturale presso un ente pubblico. (fonte: ROARS)


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  1. Luca Caputo, presidente del Circolo Dossetti, presenta la lezione – 6:40
  2. Andrea Rinaldo introduce Mauro Boarelli – 25:41
  3. Relazione di Mauro Boarelli – 51:54
  4. Interventi e domande dei partecipanti in sala e online – 27:41
  5. Risposte di Mauro Boarelli – 16:22
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3 commenti

    • Leonardo Schiavone il 6 Febbraio 2024 alle 19:40

    Andrea, ti ringrazio per avermi spinto a riflettere meglio sul fatto che la nostra società non sempre riesca a stabilire il giusto merito delle persone, mancando spesso di considerare le condizioni ambientali e le circostanze avverse. C’è bisogno di uno sforzo per andare oltre il valore apparente degli individui e la collettività dovrebbe ripianare gli svantaggi, non imputabili alla volontà personale. Il merito ufficialmente e socialmente riconosciuto non è il più attendibile misuratore delle virtù e delle capacità potenziali. 
    Pertanto, una società giusta non è quella che bada esclusivamente al merito “certificato” e ne fa la propria religione, ma quella che si incarica di rimuovere le molteplici disuguaglianze che la pervadono.

    • Andrea Rinaldo il 5 Febbraio 2024 alle 16:57

    Grazie Leonardo per il tuo commento.

    Il nostro è un circolo pluralista dove sia su questa, che su altre importanti tematiche, esistono visioni diversificate. Quello che ci importa è di approfondire con la necessaria acribia i diversi argomenti, invitando per questo motivo relatori autorevoli, in modo da suscitare un ampio dibattito, e di sviluppare quindi le piste di riflessione che siamo dati con riferimento al nostro “corso di Formazione alla Politica”, che quest’anno orbitano intorno alle “Politiche di Giustizia e alla disuguaglianza nella società contemporanea”. Sulla questione “merito” e della sua derivata la “meritocrazia”, penso che una efficace sintesi l’abbia offerta Papa Francesco (la trovi più sopra nella parte iniziale dell’introduzione al testo di Mauro Boarelli), mentre per quanto mi riguarda mi colloco nella compagine dei “meritocritici”, cioè di coloro che sono particolarmente sensibli alla tematica della “disuguaglianza”, poiché l’applicazione in ogni ambito della vita di criteri mutuati sic et simpliciter da logiche economiche neoliberiste ed aziendali, non è immune da rilevati ricadute sociali.

    Essere dubbiosi in relazione a queste dinamiche non vuol dire che non ci possano essere metodi di valutazione delle perfomances, ma essenzialmente che gli stessi non debbano concorrere a cristallizzare le disuguaglianzze iniziali, giacchè il “merito non è proprio ideologicamente neutro”, semmai esattamente il contrario. E’ ovvio poi che ciascuno di noi vorrebbe avere a che fare con un medico, avvocato, ingegnere, ecc. meritevole, ma l’asserzione così posta è generica ed è simile a quella se si preferisce essere sani o malati, ricchi o poveri, con un lavoro oppure senza, ecc. Il nocciolo è, come si misura il merito? E’ più utile un approccio individualistico oppure collettivo su tale tematica? Che merito c’è nell’essere nati in una certa famiglia, in una certa città, in un certo posto nel mondo? Inoltre alcuni eventi sono pure determinati dal caso, dalla fortuna, dalle opportunità, rispetto ai quali sarebbero necessarie semmai adeguate politiche redistributive compensative.

    Ti chiedo di rimanere in contatto con noi e di seguire in streaming oppure (meglio) dal vivo i nostri prossimi incontri.

    Arrivederci

    • Leonardo Schiavone il 4 Febbraio 2024 alle 11:52

    Ho ascoltato la relazione, le domande e le repliche e ho letto con attenzione l’introduzione. Chiedo scusa anticipatamente se scriverò cose che dissentono dal pensiero dominante che ha caratterizzato la discussione. E vengo al dunque.
    Non mi convince proprio questa demonizzazione del merito fatta dall’autore. Pare proprio che, fra i cattolici e certa sinistra, la meritocrazia non sia più  un valore ma sia diventato un disgustoso disvalore. Non è stato sempre così.
    Il merito è il giusto premio per chi si è applicato e ha conseguito buoni risultati, è da sempre un riconoscimento per l’impegno profuso. Ovviamente non deve tramutarsi in esasperato egoismo ma deve essere accompagnato da altruismo e solidarietà sociale per chi non riesce a ottenere i medesimi risultati. Non deve esserci neppure una corsa cieca a primeggiare; soprattutto nella ricerca (medica, scientifica, astronomica) deve entrare in campo la cooperazione a mediare sulla concorrenza sfrenata.
    Essere meritevoli di un buon giudizio è ciò che stimola l’applicazione, la costanza e la perseveranza. Il fatto che il reale valore dell’individuo non sempre riesca a tradursi in merito non vuol dire che il merito, da un punto di vista ideale, non debba essere perseguito. È come dire che la virtù non deve essere perseguita. Piuttosto, bisogna creare le condizioni affinché chi è valido riesca a dimostrarlo, rimuovendo le disuguaglianze di partenza e l’inquinamento da amicizie politiche, il furbesco marketing personale, le inappropriate raccomandazioni e tutte le ruffianerie di sorta.
    Il merito conquistato non è l’unico indice per misurare il valore di una persona, poiché si può essere anche molto validi ma non riuscire a mettersi in evidenza.
    Se mi si dice che l’unico faro della società deve essere il merito non mi sta bene, perché ci sono molte altre cose che hanno valore. Esso diventa biasimevole se per conquistarlo si calpestano valori come solidarietà, altruismo, dignità e altri principi morali.
    All’atto pratico, tutti cerchiamo persone meritevoli e di valore quando necessitiamo di uno specialista medico, un avvocato, una scuola per i figli, o anche solo un buon meccanico o una colf. Tuttavia, la società non si divide solo fra meritevoli e non meritevoli, ma ci sono tante sfumature intermedie. Chi non ha successo nella vita non deve necessariamente essere considerato l’unico responsabile del proprio fallimento: possono esserci condizioni avverse che hanno remato contro, tare genetica o altre condizioni di partenza diverse. Ma il merito in sé è ideologicamente neutro, ha avuto un ruolo importante nella storia dell’evoluzione umana e va incoraggiato perché fa migliorare l’intera società. In un mondo ideale, diventano leader quelli che mostrano migliori capacità! Quindi, il merito è un motore importante per lo sviluppo di un Paese, anche se non è l’unico paradigma a cui riferirsi. Così come il pensiero unico dell’Economia non può prendere il sopravvento su ogni altra cosa. Ma senza merito si tornerebbe agli aumenti di stipendio uguali per tutti del sindacato anni ’70 o al sei politico agli esami universitari predicato da Capanna durante la contestazione sessantottina.
    I test di valutazione sono necessari a stabilire il percorso formativo più adatto alle inclinazioni di una persona. Negli anni ’80 era prassi utilizzarli per tutti coloro che volevano avvicinarsi alle professioni dell’informatica.
    Viviamo in una società dove il commercio ha assunto un ruolo preponderante e genera concorrenza ininterrotta. Continue prove ci mettono a confronto nella vita di tutti i giorni…. In questo contesto anche il messaggio cristiano “Ama il prossimo tuo come te stesso” appare utopico, anacronistico e deve ridursi a un più modesto “Ama il prossimo tuo”. Come potrei amare l’altro come me stesso e aiutarlo se insieme ci presentiamo a un concorso pubblico che prevede un unico vincitore per il solo posto disponibile?
    Scevri da ogni contaminazione neo-liberista, si sente ancora il bisogno di una società “meritocratica”, pur senza smettere di essere “meritocritici”. Se nel merito c’è vero merito, viva il merito, altrimenti non rassegnamoci all’imperfezione del mondo attuale!

    P.S. Non vivo più a Milano e non vengo più alle lezioni in presenza. Seguirò ugualmente a distanza e ogni tanto invierò qualche riga di commento, se può fare piacere. Saluto tutti con molta cordialità.

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