Cent’anni di popolarismo.

Gli anniversari, a meno che non si tratti delle date di nascita o di morte di esseri umani, che sono un dato oggettivo, hanno in sé qualcosa di ingannevole, giacché spesso rappresentano insieme una fine e un inizio, e quando riguardano un evento fondativo sembrano in qualche modo prescindere dal “prima”, cioè dalla concatenazione di eventi che ha reso possibile l’evento che si vuol ricordare.

Non fa eccezione l’anniversario della fondazione del Partito Popolare Italiano, che ebbe ufficialmente il suo inizio il 18 gennaio 1919 a Roma, presso l’Albergo Santa Chiara, dietro il Pantheon, dove il prete siciliano Luigi Sturzo, fondatore e primo Segretario del partito, aveva il suo domicilio nella capitale. La pubblicazione dell’ appello “a tutti gli uomini liberi e forti” fu evidentemente un evento di grande rilievo pubblico, ma si inseriva nel flusso di una vicenda storica, quella della presenza sociale e politica dei cattolici nel nostro Paese, che partiva da lontano, dalla costituzione dello Stato unitario che era avvenuta in larga parte contro la volontà della Gerarchia ecclesiastica e che era culminata con l’abbattimento del millenario potere temporale della Chiesa, e che di fatto aveva reso in qualche modo estranei al processo unitario i credenti, almeno quelli più legati alle indicazioni gerarchiche, ai più militanti, che avevano preso sul serio la direttiva del non expedit, del non partecipare alle elezioni politiche, formula che il polemista don Giacomo Margotti sintetizzava nel fortunato slogan “né eletti né elettori” che aveva l’effetto di indebolire le già carenti basi di consenso del nuovo Stato.

Non mancavano, invero, nella realtà complessa del cattolicesimo italiano le voci che premevano piuttosto per la conciliazione fra la Chiesa ed il nuovo Stato, ma andavano a cozzare contro l’atteggiamento intransigente che derivava direttamente dalla Cattedra di San Pietro, in particolare da Pio IX e Leone XIII che nella nascita del nuovo Stato e nell’eversione del potere temporale della Chiesa vedevano anche una minaccia di ordine spirituale. Di fatto, l’aspirazione del movimento intransigente, maggioritario se non altro perché l’elemento popolare era più sensibile per antica abitudine all’obbedienza agli anatemi che venivano da Roma e che venivano rilanciati dai Vescovi, nei primi vent’anni di vita del Regno d’Italia fu puramente e semplicemente quella di un ritorno all’antico, del ripristino del potere temporale e della riforma in senso integrista della società e delle istituzioni contro la minaccia del mondo moderno che volta a volta prendeva le forme del protestante, dell’ebreo, dell’incredulo ed infine del socialista.

Per uno strano fenomeno di eterogenesi dei fini, tuttavia, che rimanda a quella complessità storica richiamata all’inizio, fu proprio la componente intransigente, sia pure per esigenze polemiche verso l’ establishment liberale, a cogliere la profondità e l’ampiezza delle ingiustizie sociali su cui si basava la fragile impalcatura dello Stato unitario, e cercare di porvi rimedio strutturando al di fuori della dimensione statuale a cui non partecipava (se non nella forma delle elezioni amministrative, al punto che, per fare un esempio, ormai sul letto di morte Pio IX autorizzava un esponente della nobiltà “nera” ad entrare a far parte della Giunta comunale romana) un complesso di attività sociali ed economiche soprattutto a livello rurale che si sarebbero progressivamente organizzate prima a livello diocesano e poi nazionale dando vita all’ ”Opera dei Congressi” ed avrebbero poi trovato un’autorevole sanzione in quella famosa Enciclica del 1891 di Leone XIII “Sulla questione operaia” più nota per le prime parole del testo latino: Rerum novarum.

Certo, ad una rilettura postuma del testo di quell’Enciclica e delle pagine degli autori di questioni socio-economiche più diffusi in ambiente cattolico, saltano immediatamente all’occhio le incongruenze, le nostalgie per un passato corporativo mitizzato, l’incomprensione spesso radicale dei meccanismi della società industriale, la paura del socialismo. E tuttavia, pur con tali limiti, il movimento cattolico si metteva in marcia senza tuttavia trovare il proprio naturale sbocco nella formazione di un partito affine, ad esempio, allo Zentrum tedesco o al partito cristiano-sociale belga, e le prime velleità democratico-cristiane, che pure nascevano da un sostrato sociale e culturale omogeneo, venivano travolte dall’ondata della repressione antimodernista mentre montava fra gli eredi del filone “conciliatore” la tendenza ad identificare la presenza politica dei cattolici come pura e semplice rivendicazione degli “interessi” materiali della Chiesa e delle realtà ad essa collegate rinunciando all’idea di una presenza autonoma e, per conseguenza, alla possibilità di un’incidenza complessiva nell’indirizzo della vita politica del Paese.

È qui che si colloca la figura per certi versi profetica di Luigi Sturzo, che in qualche modo diventa il sintetizzatore delle diverse esigenze emergenti all’interno del mondo cattolico. Indubbiamente, per estrazione familiare e per inclinazione personale, egli veniva dal settore intransigente del movimento cattolico, e lo dimostrò soprattutto nella sua costante attenzione alle istanze di carattere sociale, che non solo studiò con attenzione ma seguì da vicino nell’esperienza della sua natia Sicilia, cogliendo nell’iniziativa autonoma dei cooperatori, dei soci delle Casse rurali, dei piccoli coltivatori interessati ad una razionale gestione dei loro appezzamenti la possibilità per il riscatto di una terra desolata. Nello stesso tempo, Sturzo aveva condotto una frenetica attività a livello istituzionale, come prosindaco di Caltagirone e come dirigente nazionale dell’ANCI, da un lato raccordando la realtà sociale con quella politico-amministrativa nel suo territorio, dall’altro raccogliendo dati giuridici ed economici e formulando proposte di riforma della legislazione. A ciò si aggiunga la sua progressiva crescita come leader del movimento cattolico a livello nazionale quando, ancora durante la Grande Guerra, Benedetto XV lo volle nella posizione strategica di Segretario generale della Giunta centrale dell’Azione cattolica, incaricò che sfruttò per allargare le fila del suo progetto di costruzione del partito di ispirazione cristiana, che egli concepiva come uno strumento necessario per l’affermazione non di un’ideologia statica derivata dai libri, ma come realizzazione a livello politico di una prassi già esistente sui territori. Ciò spiega l’immediato successo elettorale del PPI fin dalla sua prima prova nel novembre 1919: pur non desiderando Sturzo ed i suoi collaboratori (e neppure la Gerarchia ecclesiastica) una stretta identificazione fra la Chiesa ed il partito, di fatto i quadri associativi ed amministrativi che ne furono il nerbo erano già pronti. Sturzo fu anche un intellettuale di levatura europea ed internazionale, privo della deformazione provincialistica propria di gran parte della classe politica italiana di allora, ed in particolare di quella cattolica: ciò gli permetteva, fra le altre cose, di vedere e valutare con attenzione l’impossibilità per la Chiesa di mantenere una sorta di neutralità fra le diverse forme di governo possibili sottolineando il valore delle istituzioni democratiche.

In effetti, se si dovessero evidenziare i fili conduttori dell’Appello -un testo lineare, di sole due cartelle, che dai principi generali deduce immediatamente un programma politico- ne emergono con chiarezza due: la tutela e promozione delle autonomie amministrative e sociali che precedono e fondano lo Stato e la difesa della democrazia procedurale e rappresentativa.

La prima si presenta come una necessità oggettiva, non come tutela degli interessi della Chiesa -secondo la concezione cattolica tradizionale (ed infatti il programma del PPI suscitò aspre critiche dagli ambienti integralisti)- ma come riconoscimento della vastità della realtà sociale e del fatto che essa, precorrendo in qualche modo la Costituzione del 1948, è un’espressione della libertà personale tanto quanto l’affermazione dei diritti individuali. Come precisa lo stesso Appello: “Questo ideale di libertà non tende a disorganizzare lo Stato ma è essenzialmente organico nel rinnovamento delle energie e delle attività, che debbono trovare al centro la coordinazione, la valorizzazione, la difesa e lo sviluppo progressivo”. Non si può non vedere la distanza fra questa lucida comprensione della società industriale in cui anche il nostro Paese stava entrando e le fantasie di corporazioni medievali e di imperi costantiniani in cui si perdevano certi oppositori di Sturzo come padre Gemelli e mons. Olgiati.

Sotto il secondo profilo, l’Appello è chiarissimo nel chiedere non una rivoluzione ma una profonda riforma dell’impianto costituzionale di uno Stato che era largamente rimasto fermo allo Statuto albertino del 1848 chiedendo la riforma in senso proporzionale della legge elettorale (che avrebbe permesso una più ampia rappresentanza ai partiti a base veramente popolare scardinando le clientele del notabilato cosiddetto liberale), il voto alle donne, un Senato non più di nomina regia ma di rappresentanza delle autonomie funzionali e locali, una maggiore autonomia di Comuni e Province e l’istituzione delle Regioni. Insomma, una complessa architettura riformista che cercava di ampliare e rendere più scorrevole il rapporto fra istituzioni e cittadini senza negare il valore della democrazia rappresentativa ma ricollocandolo piuttosto in una diversa dinamica istituzionale più rispettosa dell’articolazione sociale e territoriale del Paese.

Non è un caso che proprio questi due fili conduttori -il riconoscimento delle autonomie funzionali, sociali e locali e la riforma istituzionale- siano stati alla base dell’attiva riscoperta del pensiero sturziano condotta da Giovanni Bianchi all’interno delle ACLI e dell’associazionismo non solo cattolico.

Resta da capire che cosa sia ancora attuale di quella vicenda storica, magari partendo dalla constatazione che, solo tre anni dopo la fondazione del PPI, si affermò nel nostro Paese (anche con la complicità di alcuni dei firmatari dell’Appello) un regime che negava la democrazia in nome di un rapporto plebiscitario fra il Dittatore e le masse e negava le autonomie locali e quelle funzionali in base ad una concezione organicista della società che trasformava Comuni, Province, sindacati ed associazioni professionali in altrettante propaggini di un potere centrale oppressivo.

Senza nostalgie di “partiti dei Vescovi” o di iniziative di combattenti e reduci che parlano di ispirazione cristiana in politica ma più che a Sturzo e De Gasperi pensano ad Andreotti e De Mita, si può tranquillamente affermare che il popolarismo può essere uno degli antidoti al populismo. Se la radice del populismo, come affermano i due illustri politologi Yves Meny e Yves Surel, è la pretesa di parlare a nome di un popolo indifferenziato, senza divisioni fra classi, religioni, distinzioni culturali. Fondando la democrazia sulla volontà del popolo, la democrazia diretta diventa la panacea. La particolarità del populismo è di essere antiélite o addirittura antisistema. Fonda le sue radici su argomenti e prese di posizione non scientifiche o anti intellettuali; si appella al “buon senso” popolare in una logica per cui non esistono più verità assodate ma pareri che vengono tutti messi sullo stesso piano. D’altro canto, la pretesa di costruzione della democrazia diretta si traduce nella sistematica erosione delle funzioni proprie degli organi costituzionali, a partire dal Parlamento, talvolta -come è accaduto recentemente nel nostro Paese- senza passare per complessi e noiosi passaggi di riforma (che implicherebbero il rispetto delle procedure, e prima ancora il riconoscimento della loro funzione) ma limitandosi a comprimere il dibattito parlamentare. A ciò fa riscontro la pretesa di ampliare il ricorso all’opinione diretta dei cittadini tramite l’estensione dello strumento referendario sottovalutando il fatto che domande complesse richiedono risposte complesse, che a loro volta presuppongono da parte degli elettori una conoscenza approfondita dei problemi che oggettivamente non si dà. A meno che non si punti esplicitamente su questo per manipolare il risultato referendario nella direzione voluta, come ha dimostrato il voto del 2016 nel Regno Unito a proposito del rimanere o meno nell’Unione Europea.

A fronte di ciò, e pur sapendo che probabilmente il populismo, pur rappresentando oggettivamente un pericoloso parassita delle democrazie, pone allo stesso tempo delle domande alle istituzioni democratiche sulla loro capacità di rispondere fino in fondo alle istanze dei cittadini, possiamo dire che senza le due intuizioni fondamentali del popolarismo sturziano, il rapporto non strumentale con le forze sociali che a tutt’oggi garantiscono quel po’ di coesione del tessuto sociale del nostro Paese che ancora resiste e la riscoperta di una democrazia procedurale che passa di necessità anche per la rigenerazione delle forze politiche, dei partiti, difficilmente potrà essere evitato il rischio di quell’ “inverno democratico” di cui ci giungono continui segnali da ogni parte del mondo.

Lorenzo Gaiani

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