Don Luigi Ciotti. Chi ha paura delle mele marce?

Tutti parlano di diritti in Italia, anche coloro che li hanno resi inesigibili, che li hanno indeboliti. Aver messo in discussione la nostra Costituzione ha sgretolato lentamente i diritti nel nostro Paese. I diritti non possono essere in balia di maggioranze politiche, qualunque esse siano. Vince una nuova maggioranza e dice: “questi diritti non vanno bene”; poi arrivano gli altri, e…Ma i diritti non possono essere neppure in balia di dati economici. Quando mi sento dire che non possiamo assicurare una serie di servizi, che non possiamo fare certi investimenti perché non ci sono soldi, io dico che non è vero; dipende da come li usi i soldi, in che direzione li fai andare.

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Trascrizione della relazione di don Luigi Ciotti

****** OMISSIS ******

Dottori in scienze confuse
Nessuno di noi, negli anni ’70, alle prese con le droghe pesanti poteva pensare che avremmo avuto a che fare, anni dopo, con le droghe chimiche e quelle sintetiche…E mentre noi parliamo di questo, abbiamo una generazione di ragazzi che oggi già usa altre sostanze, con modalità del tutto diverse. Ma non solo. Attenzione: oggi le mafie gestiscono questi mercati, guardando sempre avanti; alle spalle del tutto c’è una grande strategia, al solo scopo di fare affari e di controllare le situazioni, i cambiamenti e le trasformazioni nel nostro come negli altri paesi.

Io credo che l’atteggiamento vero sia quello di considerarsi un po’ “analfabeti”, nel senso che nessuno di noi può mai sentirsi a posto o arrivato. Ciò vuol dire: studio, ricerca, momenti di approfondimento, di confronto; vuol dire, esattamente, voglia di metterci il cervello. Diffidate di chi ha capito, di chi sa tutto. Credo che il dubbio debba sempre accompagnarci; un dubbio propositivo, con il desiderio di conoscere veramente come stanno le cose. In questo senso io auguro di essere “analfabeti”, perché ci vuole tanta umiltà per interpretare i cambiamenti e le trasformazioni, senza stare ancorati a letture vecchie e retoriche. E noi siamo chiamati proprio a questo:  leggere i cambiamenti e le trasformazioni.

Per quel che mi riguarda, si tratta di un atto di fedeltà alla strada da dove noi, come Gruppo Abele, siamo partiti. La strada è fatta di volti, di storie, di persone ed è la strada che chiede – ripeto – di leggere i cambiamenti e le trasformazioni, di non inseguire le mode e, soprattutto, di non scegliere i compagni di viaggio, perché è molto comodo discriminare. Io faccio pure un’accoglienza, ma pretendo di scegliere Tizio o Caio, che abbiano le caratteristiche che decido io…No! La storia delle nostre realtà insegna a non scegliere i compagni di viaggio; a volte sono duri, difficili, scomodi, ma sono la nostra gente. Dobbiamo essere capaci di incontrare, di organizzare, per sapere accogliere in un certo modo e poi con la stessa forza e dignità chiedere allo Stato ed alle Istituzioni di fare la propria parte; e noi, in una chiara distinzione di ruoli e di responsabilità, fare la nostra parte. Mai rinunciare a  chiedere allo Stato e alle Istituzioni di compiere ciò che è loro dovere.

Io credo che questo sia un momento – lo vedo con i ragazzi, nel mondo della scuola, ma non solo con loro – che è necessario darci una mano a vedere e non solo a guardare perché si guarda tanto, siamo sommersi da immagini, ma per i nostri percorsi educativi bisogna riuscire  a vedere e non solo a guardare. Inoltre occorre dare una mano ad ascoltare (non solo a sentire), a capire (non solo a sapere). Non si tratta di studiare per superare un esame accademico, bisogna scendere in profondità, per il rispetto dovuto alle persone ed è questa la dimensione che anche la scuola e la formazione, devono assumere.

Parole, parole, parole…
Il secondo elemento che metto in premessa alla mia riflessione è certamente l’inganno delle parole. Molte parole sono sospette, altre sono di grande inganno nel paese. Chi non parla di legalità in Italia? Anche chi fa le leggi ad personam, chi calpesta ogni regola per tutelare la propria illegalità, chi rende legale ciò che è illegale. E’ un confine delicato del quale non si è presa sufficiente coscienza; ci si è lasciati andare un po’ troppo, magari ridendoci sopra. Attenzione: questo ha portato allo sfascio, e spiegherò anche il motivo con i dati alla mano, ma anche con i fatti per quanto mi riguarda.

Il passaggio sta proprio qui: l’inganno delle parole. Una delle parole che inganna è proprio legalità. Ma ce ne sono tante altre: solidarietà, giustizia, pace, che si prestano allo stesso imbroglio. Vengono svuotate del loro valore, del loro contenuto queste parole; vengono coniugate in modi diversi; contengono  tutto e il contrario di tutto. C’è un inganno delle parole! Noi dobbiamo riaffermare, nel modo giusto, i contenuti e lo spessore di queste parole che per noi sono vita, la vita delle persone; quando parliamo di vita parliamo di diritti, non è che parliamo di cose così… tanto per dire.

Ma, ci risiamo: tutti parlano di diritti in Italia, anche coloro che li hanno resi inesigibili, che li hanno indeboliti. Aver messo in discussione la nostra Costituzione ha sgretolato lentamente i diritti nel nostro Paese. I diritti non possono essere in balia di maggioranze politiche, qualunque esse siano. Vince una nuova maggioranza e dice: “questi diritti non vanno bene”; poi arrivano gli altri, e…Ma i diritti non possono essere neppure in balia di dati economici. Quando mi sento dire che non possiamo assicurare dare una serie di servizi, che non possiamo fare certi investimenti perché non ci sono soldi, io dico che non è vero; dipende da come li usi i soldi, in che direzione li fai andare. C’è una crisi economica certamente non indifferente, ma mi chiedo anche perché?…Il ponte sullo Stretto di Messina ha un solo vantaggio: non unisce due coste ma due cosche. Sia ben chiaro: questo lo dicono quelli che ci lavorano e noi ci lavoriamo, come Libera, in quei territori.

Ricordo che il Ministero del Tesoro ci chiese, anni fa, una ricerca, che noi abbiamo fatto, sul dato criminale in quei territori in previsione del ponte sullo Stretto; la consegnammo al governo di Centrosinistra di allora, ma era così scomoda che la misero nel cassetto. Abbiamo ritrovato alcuni stralci, abilmente presentati in un momento particolare su Panorama, quando, evidentemente, serviva a quella rivista per attaccare qualcuno. E’ sempre così! Quella ricerca non è mai uscita: era una ricerca sul dato criminale – perché poi di questo, noi come Libera, ci occupiamo –  quindi il potere documentare…Abbiamo lavorato con serietà, anche con Università e con bravi ricercatori, perché non ci si improvvisa rispetto a queste cose.

Ecco, l’Italia paga 1400  milioni di Euro per affittare 24 aerei da guerra alla Gran Bretagna; in leasing alla Gran Bretagna! Io non voglio semplificare, però un po’ di rabbia ce l’ho dentro, rispetto a questo, perché tu poi vedi dove sta andando lo stato sociale in questo paese, l’attenzione alle persone.

C’è un inganno delle parole e io mi interrogo su questo; come ci sono parole sospette. Una di queste è proprio quella dei giovani. Il gioco mediatico fatto sui giovani a Locri è impressionante, guardate, è un gioco mediatico. Io a Locri c’ero ai funerali di Fortugno; a Locri c’ero sempre stato prima; c’ero l’altro giorno in diocesi, e ci ritornerò; parlo con affetto e con stima di Locri, che nessuno mi fraintenda, vi prego. Il giorno dei funerali mi ero messo dietro un pilastro della Chiesa, zitto zitto; poi mi è piombato lì uno con un microfono, che mi aveva scoperto. Gli ho detto “Basta! Basta!”. C’è un inganno, parole sospette. I giovani ci sono sempre stati quando hanno trovato punti di riferimento coerenti, credibili, una continuità; hanno bisogno degli adulti veri; non privi di difetti, ma carichi di passione, di autenticità. Hanno bisogno di questo i nostri giovani: di trovare delle coerenze intorno a loro, e quando sento dire “voi siete il nostro futuro” mi arrabbio perché la società deve investire oggi, nel presente. E’ comodo continuare a dire “Voi siete il nostro futuro”; io lo sento da tanto, da sempre. Sono il nostro futuro?. Questa è una società che si “preoccupa” dei giovani, ma non se ne “occupa” complessivamente. Non amo generalizzare, mi interessa anche sottolineare il positivo che c’è, sia ben chiaro. Credo, anche, che sia necessario correttamente distinguere per non confondere i piani, però anche prendere coscienza. I giovani ci sono; noi lo vediamo nella nostra scuola quando si creano spazi e opportunità.

Avete presente, qui a Milano è successo questo fatto; lo cito con grande rispetto, potrei indicarne tanti altri, ma in questo momento mi è venuto in mente questo. Una banda di ragazzini della Milano bene, di un quartiere della città dove c’è benessere, quindi con sicurezze economiche e culturali non indifferenti, che vanno a fare rapine ai vecchietti. Immaginate l’angoscia, la fatica, la sofferenza delle persone anziane con questi ragazzini che così coprivano il grigiore del tempo, facevano i bulli a scapito delle persone anziane. Immaginate l’ansia, la paura a vedere questi ragazzini. Ma la cosa più sconcertante è la dichiarazione a verbale in questura: “Non gli abbiamo fatto mancare nulla”.  Il problema è un altro: che qui si sta confondendo il darsi con il concedere. Voi capite, allora, che c’è un mondo di giovani che ha bisogno (lo dico in senso anche più lato, quindi una riflessione anche per me) di una società che creda e investa su di loro e non dica soltanto “siete il nostro futuro”. Certo il futuro lo costruisci se crei oggi le condizioni per accompagnare e per stimolare quel sano protagonismo e quella vera partecipazione in un mondo che riesce a intercettare il bisogno dell’ adolescente di esserci, di esprimere vissuti ed emozioni. Invece, questa è una società che corre e lascia indietro molti, e lo dimostrerò tra poco con alcune testimonianze.

L’altra parola di inganno è “emergenza”; guardate: parola sospetta. C’è sempre emergenza in questo Paese. Io con Libera (qui c’è  qualcuno con cui abbiamo fatto tanta strada insieme) – che oggi è costituita da 1200 associazioni, piccole e grandi; una grande rete dedicata ad aprire percorsi di legalità, di giustizia, di lotta alle corruzioni, alle mafie –  siamo impegnati non solo a dire dei no, ma soprattutto a costruire dei sì; dei sì di vita e di speranza per la gente. Io devo dire che ogni tanto esce fuori l’emergenza. Prima c’era Gela: questi ragazzini sedicenni, uccisi allo stesso modo, bruciati allo stesso modo, le organizzazioni e i mercati della droga li hanno usati e poi li hanno scaricati perché ragazzini. Emergenza Gela. Poi Scampia: 54 morti, una guerra per il controllo del territorio, anche lì la droga grande protagonista. Emergenza Scampia. Poi l’emergenza Scampia non c’è più, anche se le cose continuano ad andare avanti allo stesso modo. Emergenza Locri. Noi siamo un paese delle emergenze, signori. E’ l’altro inganno delle parole è certamente quello che ho richiamato all’inizio della legalità: viene invocata a parole, ma poi quello che era illegale è diventato legale per favorire alcuni contesti e alcune persone. Dispiace dire questo perché ti accusano: “voi siete di parte”. Ma qui ci vuole amore della verità e l’onestà rispetto a tutto questo.

Altra parola sospetta è “etica”,  perché la stanno usando tutti adesso; anche quelli che non dovrebbero pronunciarla perché tutto fanno meno che assumere una dimensione etica. Ma siccome è una parola che può accalappiare consensi, io mi arrabbio, non posso non arrabbiarmi! L’etica, voi me lo insegnate, è la ricerca dell’autenticamente umano; lo sottolineo: è l’autenticamente umano e non c’è autenticamente umano senza la corresponsabilità degli uni per gli altri. Il massimo della dimensione etica è il prendersi cura degli altri; ma farlo, non dirlo. Prendersi veramente cura della dignità e della vita delle persone è il massimo e quindi questa responsabilità se la assuma la politica, ma devo assumerla anch’io come cittadino e se l’assumano i vari contesti delle istituzioni. E’ la corresponsabilità degli uni per gli altri l’etica e quindi non venga usata questa espressione che sentiamo pronunciare dappertutto.

La collera dei piccoli e dei poveri
L’altra premessa che faccio – e che, in un certo senso, è un augurio – è quella del diritto alla rabbia. Io credo che il diritto alla rabbia sia importante e fondamentale. Non vuol dire che ti viene da arrabbiarti, ma vuol dire decidere di arrabbiarsi. Abbiate pazienza: è quella che nell’Antico Testamento era l’ira di Dio, l’ira dei poveri, l’ira dei giusti; quella che quel grande papa che voi avete avuto come cardinale in questa città, Paolo VI, chiamò la collera dei poveri. La rabbia ti spinge a reagire, ad agire; la rabbia è protesta e anche indignazione, ma non come moda: perché c’è il rischio che anche l’indignazione diventi un po’ una moda, ci si indigna poi tutto finisce lì. L’indignazione vera, la protesta, la progettualità per un cambiamento, la rabbia è anche un grido, una denuncia seria, documentata. Dicevo: la rabbia ti permette di agire e reagire. Ma perché io vi auguro e mi auguro sempre questo diritto alla rabbia? Perché la rabbia è un atto di amore; almeno per me è un atto di amore; ci si arrabbia per le cose che si amano; cioè: tu ami la giustizia, quella vera, quella che ti dà dignità… Noi abbiamo amato la nostra Costituzione perché affermava dei diritti fondamentali delle persone; diritti sociali; perché è stata capace di mettere al centro la storia delle persone, la loro dignità soprattutto. Ecco allora è un atto di amore il diritto alla rabbia, io ve lo auguro.

Essere analfabeti, quindi, contro l’inganno delle parole sospette; la dimensione etica e il diritto alla rabbia sono le premesse che faccio per entrare in quel leggere il presente e pensare il futuro, con quel po’ che io sono capace, perché io l’unica laurea che ho è “in scienze confuse” e quindi vi porto questo faccia a faccia con le storie delle persone.

La cattedra della strada
Ho ritenuto, nel 1978, di dare vita all’Università della Strada, perché la strada ha da insegnare al mondo della ricerca e dell’università, agli operatori del pubblico e del privato; così come il mondo della strada ha bisogno di quel patrimonio, di quella ricerca, di quegli approfondimenti, in questo caso, delle università. Le due dimensioni hanno bisogno di intrecciarsi, di incontrarsi, di lavorare e di costruire insieme. Noi nel 1978 abbiamo costruito l’Università della Strada; adesso lavoriamo con diverse università del mondo, ma dopo tanti anni bisogna anche rileggerla e rilanciare i contenuti; la strada e la povera gente…quei due mondi, sia ben chiaro, devono stare assieme, non sono questo e quello; è fondamentale oggi per leggere la realtà ma anche per costruire percorsi e progetti nel presente.

Scusate se non sono all’altezza
Ora parto con la prima considerazione per me inquietante. Il 27% in Europa, in Occidente, vive di depressione. E’ un dato dell’Unione Europea: si vive di depressione. E la depressione tocca molti ragazzi, molti giovani. Noi in Italia abbiamo tanta gente che vive di questa malattia e bisogna chiedersi il perché; non posso solo dire basta con la depressione. Che cosa è venuto meno dentro i nostri contesti, i nostri tessuti sociali, ecc.? Vi leggo tre messaggi di ragazzini suicidi. Io sono andato ad incontrare le famiglie e gli amici di questi ragazzi. Potrei leggervi tanti messaggi, ma non abbiamo il tempo. Ne scelgo tre; state attenti a questi tre, fra i tanti che potrei citare. C’è una parola che torna sempre, una parola che mi ha colpito perché studiando i fatti e, incontrando storie di famiglie dove il ragazzino purtroppo si è ammazzato, i messaggi erano altri e anche la dimensione era altra. Qui adesso trovate una parola che ritorna e, allora, mi pongo delle domande.

Sedici anni: “La vita è troppo difficile” – scrive questa ragazzina  – “scusate perché non sono capace. Scusate”. C’è un ragazzino di Genova che si ammazza e dice: “Scusate, se vi ho deluso”. C’è  una ragazzina quindicenne che annuncia il suicidio usando l’SMS, un nuovo strumento, lo annuncia agli amici:  “Scusate, vivo una vita che non è la mia; se non fossi nata sarebbe lo stesso; io ho avuto il coraggio di farlo, poi si vedrà”. Voi avete capito; ne potrei leggere tanti altri. Sono stato a incontrare i compagni e molte di queste famiglie, non tutte, dove c’è dolore, ci sono sensi di colpa, ci si pone domande nuove; sono padri e madri che, magari, ce l’hanno messa tutta; possono essere scappate le cose di mano; ma nessuno giudichi. In questa società dobbiamo investire in vari supporti di orientamento alla famiglia, costi quel che costi: è una realtà che rischia di  essere lasciata sola, è la più disorientata. Non parlo solo di chi ha già magari una patologia all’interno; parlo di situazioni di totale quotidianità, di normalità di percorso; in questa società che corre, in cui  uno viene travolto senza trovare un riferimento che non lo giudichi, che lo aiuti con i linguaggi giusti; e non solo riunioni per gli addetti ai lavori, dove vengono sempre quelli, quelli che hanno più strumenti. Occorre veramente un’azione forte, forte, forte. E allora voi capite che in questi messaggi, in molte di queste storie, c’è la paura della solitudine, la paura di non essere capaci di vivere, la paura di deludere; e si scusano!

Sommersi dal virtuale
Ma poi, dall’altra parte che cosa c’è? Ci sono, per esempio (anche qui non generalizzo) 30 milioni di italiani che non leggono né il giornale, né un libro. Vivono di televisione; non voglio demonizzare nessuno, ma dipende da che cosa ti passa la televisione, dai contenuti. Ho detto prima: distinguere per non confondere, non dimenticare il positivo. Ma attenzione, noi abbiamo tanti messaggi che entrano tutti i giorni in casa nostra, che battono su un punto: ciò che conta è l’apparire, il potere, la forza, il denaro. C’è quella pubblicità di quel ragazzino simpatico, che diventa adolescente, poi diventa un giovane, poi diventa un adulto, poi diventa una macchina….Uno può anche sorridere; io vedo calpestato tutto un passaggio. Oppure quella ragazzina che va in chiesa a sposarsi; tutto avviene in 50 secondi; l’obiettivo pubblicitario è raggiunto; ma che cosa passa d’altro; che cosa resta dentro? Se io adulto sono già inquieto, immaginate un ragazzino che è più fragile, che sta costruendo la sua struttura, la sua personalità; in questo momento che vedi questo prete, che vien fatto passare come uno stupidino (noi preti, in tutte le pubblicità, siamo così: insomma con questo collettino, il prete quello lì, tutto a posto). Il matrimonio è un momento importante, al di là di tutti i riferimenti che uno può avere; ed ecco che c’è questo ragazzo, tutto felice che vuole sposarsi (tutto in 50 secondi…  la grande abilità della pubblicità e della capacità di penetrazione); arriva la ragazza, improvvisamente c’è questa sirena, e lei esce perché c’è l’auto e parte con l’auto. Ora uno può ridere: “Beh è pubblicità”. No! Io come voi, e chi di voi è con i ragazzi tutti i giorni con i figli o opera nella scuola, verifichiamo una ricaduta.

Vi porto un esempio che può essere banale. Ne ho discusso con un amico che era direttore de La Stampa di Torino, Marcello Sorgi; un figlio di 10 anni che vive a Roma; e l’anno scorso a maggio, coppa dei campioni, c’è Juventus-Real Madrid. Il papà dice: “Ti faccio accompagnare da un collega che deve venire a Torino per problemi di lavoro, così vieni con papà a vedere la partita”. Immaginate per il bambino; il massimo, andare con papà allo stadio a vedere la Juventus in coppa dei campioni; andare con papà allo stadio, in tribuna! Comincia la partita, ad un certo punto Trezeguet fa una rovesciata. La palla è in rete. Esplode lo stadio, immaginate il bambino, un’esperienza così con papà. Si faceva festa da tutte le parti. Torna il silenzio, la palla al centro, ricomincia l’azione e il bambino dopo un minuto, un minuto e mezzo chiede al papà: “Quando fanno rivedere l’azione?”.

Allora oggi siamo chiamati a misurarci con una nuova povertà, perché io ho trovato in molte di quelle storie, parlando con i genitori ed i ragazzi, un dato: che spesso non c’è più la percezione che quel gesto è per sempre. Siamo sommersi di virtuale: chi dà una mano oggi a calare il virtuale nel reale? Io pongo una riflessione che anni fa non ci saremmo fatti, quando quel libro è stato scritto eravamo ben lontani da tutto questo. Considero una nuova povertà il bisogno di dare una mano a calare il virtuale, a decodificarlo nel reale: chiamo in causa il mondo educativo, ma anche gli strumenti che devono fornire  ai papà e alle mamme…….

Noi a Torino ci siamo chiesti: “Ma chi dà una mano alle famiglie?”. Abbiamo deciso che in una vecchia fabbrica, che abbiamo in uso e che abbiamo sistemato e reso accessibile alla gente, il martedì sera le famiglie possono venire, possono mangiare a un prezzo che meno non si può fare (perché oggi una famiglia, due figli, uscendo coi costi che ci sono non se lo può permettere). Devi creare le condizioni. Da noi puoi mangiare un piatto di pasta e un piccolo secondo con la tua famiglia dentro questa grande struttura; poi scatta tutta una serie di servizi per i bambini più piccoli, bimbi piccoli piccoli, per quelli di una certa età, per gli adolescenti, per i giovani. Ci sono tanti animatori, ma vengono divisi anche per età e i genitori hanno una serata di approfondimento su questi percorsi. Dubitavamo: verranno, non verranno, è solo una fantasia nostra? Abbiamo avuto il problema contrario, che siamo sommersi dalla gente che arriva, che non riusciamo più a rispondere. Questo per dire la grande sete, il grande bisogno che c’è rispetto a tutto questo. E’ importante, quindi, sapere cogliere questo tipo di domanda e rispondere in un certo modo.

L’uguaglianza non è più un valore
Faccio un passo indietro, se mi permettete, e vado un po’ alla nostra storia. Oggi c’è il precariato ed esiste anche il precariato dei diritti. L’ho detto prima e questa è una nuova povertà cui non eravamo abituati, né preparati in termini culturali, perché lo sgretolarsi della cultura dei diritti, la cancellazione strisciante dell’uguaglianza –  questo è il punto – non è legata solo a un  fatto economico ma a una ragione ideologica. C’è una cultura dietro tutto questo. Mi voglio spiegare bene, perché quando parlo delle politiche sociali c’è la storia del gruppo di cui faccio parte. Non ne  parlo in modo generico; parlo di persone che hanno un nome ed un cognome, un volto e un percorso; c’è la vita della gente, la dignità delle persone.

Ma dove sta il meccanismo di questa precarietà dei diritti oggi, di questo sgretolarsi della cultura dei diritti e quindi di quel valore dell’uguaglianza che la nostra Costituzione ha affermato con forza?

E’ che l’uguaglianza è diventata un disvalore, non più un valore e quindi lo smantellamento dello stato sociale è sempre più spesso giustificato non solo per ragioni economiche ma, ripeto, per ragioni ideologiche. A sostenere questa virata c’è un luogo comune che si aggira nel dibattito politico: la modernità mal tollera i diritti sociali, il cui declino è un valore, quanto meno un prezzo da pagare al progresso, capite? Non ci può essere sviluppo e progresso se noi continuiamo ad investire per i diritti sociali. La storia dei più poveri e della gente è quella che impedisce un certo tipo di progresso. C’è questa cultura qui dietro. Lasciamo il privato e il volontariato ad occuparsi dei tossicodipendenti, degli immigrati, dei carcerati. Arrangiatevi, il progresso ha bisogno di altro. Questa modernità mal tollera i diritti sociali, non tollera l’uguaglianza. Dietro alla legge sull’immigrazione c’è questo.

L’uomo reso merce
Gli immigrati clandestini. Non dimenticherò mai la bara numero 3; un ragazzino di 16-17 anni con gli occhi ancora aperti, a pochi metri dalla riva. Ognuno di noi si interroga, io mi sono interrogato. C’era con me un amico mussulmano che diceva le sue preghiere mussulmane, nella sua lingua; non capivo niente, ma sapevo che pregavamo lo stesso Dio ed eravamo contenti di essere insieme, anche con la fatica,  di fronte a quei numeri sulle bare, non avendo i nomi perché erano clandestini…Allora io non sapevo più che cosa dire; che cosa dici quando la prima causa di morte in Italia per gli immigrati è l’annegamento e il più grande cimitero è il canale d’Otranto?! Uno si chiede se nel nome della sicurezza noi dobbiamo solo fare leggi che escludono, senza alcuna ottica di inclusione. Poi so bene che ci sono dei paletti, so che non si può semplificare; ma mi chiedo, mi chiedo, mi chiedo se non è possibile…

E sai che preghiera ho detto io lì, perché mi è venuta spontanea? Quella di quel grande vescovo che fu don Tonino Bello (molti di voi avete avuto modo di leggere, di conoscere quando Tonino Bello ha detto quelle parole, di fronte a tutte quelle bare): “Io vi chiedo perdono”, ed io ho chiesto perdono. Non so chi siano questi ragazzi, so solo che sono venuti a morire in casa nostra, a 30 metri dalla riva; so solo che in nome della sicurezza si è fatto tutto ed il contrario di tutto e ho citato nella preghiera Tonino Bello quando diceva: “Non mi interessa sapere chi sia Dio, mi basta sapere da che parte sta”. Anch’io sento questa virata fatta nel nome del progresso: la modernità mal tollera tutta questa serie di fatiche, di problemi che certo ci sono, non voglio neppure semplificare tutto questo, ma voi lo capite….E si sa che nei periodi bui per l’intelligenza e la cultura i luoghi comuni la fanno da padroni; solo così si spiega la debolezza delle reazioni, quasi che i diritti sociali non fossero il nucleo forte della civiltà dei moderni, ma solo un impedimento nella testa di qualcuno.

Quello che è successo ieri in Libia è di una gravità inaudita. Però ce la siamo tirata; signori, ce la siamo tirata, perché alla violenza ed agli estremismi bisogna sempre rispondere con chiarezza e con fermezza; però i vari Borghezio che hanno sempre insultato tutti (io ne so qualcosa) questi tanti Borghezio con le semplificazioni delle derisioni, sono un segnale. Adesso tutti prendono posizione, ma si doveva intervenire prima, perché il danno che certe semplificazioni hanno fatto qui, in casa nostra, ha portato anche a creare merce; perché certe leggi sono passate, certi compromessi sono stati fatti proprio nel nome di questa cultura e di queste mentalità.

A me sembra, da incompetente, che non si risana l’economia di un paese distruggendo la società, la storia delle persone, lasciando indietro i più fragili ed i più deboli. Non basta fare impresa, occorre fare società.

Guardate in certi ospedali: ormai c’è l’aziendalizzazione della vita; tutto è in funzione del mercato, tutto diventa merce. Io non amo generalizzare, ma lo vedo, lavorando in mezzo alle persone…L’AIDS l’abbiamo incrociata nell’arco degli anni, è stato per noi uno dei grandi impegni; la tossicodipendenza, tutto ci ha posto nuovi interrogativi e così via.

I problemi non si affrontano con leggi-manifesto che non portano molto lontano.  Le politiche devono essere al servizio dei processi educativi, ma non devono sostituirsi ad essi. La legge non può avere la pretesa educativa: faccio la legge e allora riduco i consumi; faccio la legge educo. Ma la legge non educa per niente da sola.

Noi abbiamo sempre lavorato sul positivo, per costruire dei sì, e abbiamo visto che così è possibile un cambiamento; ma sei poi togli le risorse e dici che le cose non funzionano solo perché non hai messo in condizione di agire in un certo modo, questo non è giusto e non è corretto. Io credo che dobbiamo guardarci un pochettino intorno, per accorgerci di quello che sta accadendo…: il verbo del profitto sta distruggendo molti servizi e molti interventi e la cultura della privatizzazione è molto preoccupante in questo senso.

Un mondo che esclude
Un altro elemento che mi sembra importante accennare è che l’esclusione – voi me lo insegnate – non è solo la povertà economica. La mancanza di relazioni, di reti sociali, di strumenti culturali, di ambienti, di informazioni, ha incrociato un sacco di gente; forse a Milano un po’ meno. Io guardo in giro per il Paese dove opero e ho trovato una marea di gente, sempre di più, che è nell’impossibilità di essere libera, perché non è in grado di produrre il proprio progetto di vita. C’è il problema della casa, dell’adolescenza e di una giovinezza che viene allungata per mancanza di occupazione e di lavoro; in certi contesti non riesci proprio a costruire il tuo progetto di vita. E, quindi, l’esclusione non è un dato solo economico: c’è anche un problema di relazioni, di reti sociali, di strumenti culturali, di possibilità di essere partecipe nella comunità con un tuo sano protagonismo.

Noi a Torino abbiamo aperto da anni (c’è anche qui a Milano), nei quartieri più difficili, studi e ricerche su immigrazione e conflitti. Viene molta gente; anzi la polizia, i carabinieri e i vigili urbani accompagnano numerose persone perché non si deve andare solo nel penale, nel civile, nell’aula giudiziaria. Scopri che molti, magari nel vicinato, sullo stesso pianerottolo, non convivono più nel modo giusto; tutto è frantumato, c’è una violenza impressionante; e scopri che c’è un bisogno di comunicare, che qualcuno medi, magari verso l’alto, ma che ti ascolti. Bisogna recuperare queste relazioni! Dico questo, perché nel nostro Paese sono aumentati fortemente gli omicidi e la violenza in famiglia, e quella tra i vicini di casa. Paradossalmente sono diminuiti gli altri crimini, mentre sono aumentati gli omicidi negli ambiti familiari.

L’altro come minaccia
C’è una povertà di comunicazione e c’è il rischio che la diversità venga sempre più vista come minaccia; che l’altro sia visto come nemico; si ammazza il vicino di casa, si ammazza anche per il posto dell’automobile, si ammazza in famiglia con una facilità impressionante. C’è questa esplosione di violenza che ci porta sul problema della povertà della comunicazione, di quali riferimenti e possibilità diamo all’altro. Qui hanno contribuito tanti bei personaggi nel nostro Paese ad alimentare tutto questo. Io devo dire e ribadire ancora una volta, anche alla luce degli ultimi fatti, che l’altro, qualunque altro, non è mai una minaccia per il nostro credo, la nostra cultura e i nostri principi. No agli estremismi da qualunque parte provengano. Anche ai nostri estremismi dobbiamo dire di no. Ma quando sento un vescovo parlare di “una minaccia per il nostro credo”…Una minaccia per il nostro credo? Io non mi sento mica minacciato dagli amici. Noi siamo chiamati a vivere con coerenza, a rispettare gli altri, a chiederci se siamo impegnati non solo a dire, ma a tradurre quel dire concretamente nel fare.

Dal dire al fare
Allora, per me è importante che i cristiani, non si dimentichino mai (io per primo, non devo dimenticare), che la parola di Dio non si annunzia soltanto con le parole, ma con la vita, con i gesti, con i fatti. La Chiesa evangelizza, non solo per quello che dice, ma soprattutto per quello che è e che fa. Bisogna saldare la terra con il cielo. Per il nostro credo e la nostra cultura, l’altro non è una minaccia. La Parola che noi crediamo è parola che accoglie, che crea relazioni, dialogo, ascolto, che vive la diversità come una ricchezza e un grande valore. Ecco, allora, non mi interessa sapere chi sia Dio, mi basta sapere da che parte sta.

Voi avete sentito parlare del giudice Livatino, ucciso come un cane dai mafiosi. Il Presidente della Repubblica di allora (tre passaggi fa) disse: “il giudice ragazzino”…..io non voglio giudicare; certamente le persone possono sbagliare poi uno si rimette in discussione; però ci aveva colpito allora, ci aveva disturbato; a me aveva offeso perché tu vedi quella storia di chi mette in gioco la vita per costruire la giustizia, per cercare la verità nel Paese. Quando lui venne ucciso, la mamma trova un quaderno. Vi cito solo una riga. Il giudice ragazzino aveva scritto “Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”. Questo vale per tutti; a me aiuta. E molte volte tra il dire e il fare, tra l’impegno che uno dovrebbe metterci e poi la sua coerenza, ci sono tante fragilità, tante debolezze dentro; vorresti fare di più, ti lasci travolgere da tante cose, ma “non non basta essere credenti, è necessario essere credibili”. Di fronte a questi scenari, oggi noi siamo chiamati a non dimenticare che il fare è la premessa e la speranza del cambiamento.

Abbiamo svuotato le nostre città di molto senso e di  molti significati; io vedo questa povertà dentro tanti nostri territori e occorre una reazione energica per recuperare questa misura, quest’anima all’interno dei nostri contesti. Certo: rispetto a tante vicende che succedono, c’è bisogno di sicurezza. Ma la sicurezza che dobbiamo recuperare è una sicurezza sociale, innanzi tutto, dove in quel “sociale” c’è proprio quella dimensione della relazione, dell’ascolto, della reciprocità. Questa è la grande scommessa alla quale dobbiamo lavorare.

Stato penale e stato sociale
Quello che avviene intorno a noi l’avete visto: c’è sempre più stato penale e sempre meno stato sociale. Si riempiono le carceri. A Torino mi diceva il direttore delle carceri, che ho visto l’altro giorno (una bravissima persona sapete, un bravissimo direttore, come bravo è quello che avete qui a Milano: ci mettono testa, cuore, anima, e fanno il loro mestiere che non è certamente facile e a volte anche ingrato); mi diceva: “Sì, sì le Olimpiadi; ma a Torino abbiamo 11 mila agenti per la sicurezza, me ne rendo conto; con quello che succede, si accendono ancora le micce; poi siamo ancora ulteriormente pressati con queste semplificazioni, questi giudizi, questo deridere la storia, i percorsi, i riferimenti degli altri….Come ti permetti?”. E aggiungeva: “Ogni notte mi portano 50-60 persone in galera; con 20 giorni di Olimpiadi, fate il conto. Torino sta esplodendo; e già, perché una presenza di forze di polizia così sul territorio…se uno rubacchia qui lo beccano dopo 100 metri; c’è polizia  da tutte le parti che fa il suo mestiere, che è un mestiere difficile; io conosco molti di questi ragazzi, anzi sono riconoscente a quelli che mi scortano da 15 anni, da quando la mafia ha deciso di dare una botta secca a chi si impegna rispetto a questo; io ho affetto per questi ragazzi e poi ci sono i pericoli e le semplificazioni da tutte le parti come in tutti i contesti, come in tutte le realtà. E ancora: “Io li ho fatti dormire per terra, 80 di loro, l’altra sera senza una coperta, senza materasso, non c’era posto. Che cosa è possibile fare? Sai, questi che sono arrivati  sono tutti poveri cristi che hanno sbagliato; certo, sia ben chiaro, nessuno vuole semplificare; hanno sbagliato; ma non è il grande criminale, non è il grande assassino; sono persone che facilmente vengono individuate, perché il grande criminale, si copre dietro le facce d’angelo, manovra le leve di tutto, acquista mano d’opera e gioca sulla fragilità e la disperazione di queste persone”. Quindi c’è sempre più penale e meno sociale.

I figli della mafia
Vi porto un esempio che a me è faticosamente caro: sono i figli della mafia. I figli della mafia impegnano molto Libera: i loro fascicoli sono aumentati. I figli minorenni della mafia sono ragazzini che sparano, che fanno i galoppini della droga, che la mafia usa abilmente per trasportare anche le armi. Su quelli che vengono individuati i tribunali dei minorenni intervengono. I figli della mafia io li chiamo così perché la mafia è una madre premurosa ed esigente; premurosa perché non ti fa mancare nulla: ti dà denaro, senso di identità e di appartenenza. Immagina un ragazzino adolescente o pre-adolescente: se non ha altri stimoli, altri riferimenti nel suo territorio, cerca l’identificazione nella figura forte, nella figura capace, nella figura che dà sicurezza ed il clan gli dà apparente sicurezza. C’è un meccanismo che voi conoscete meglio di me, perché chi ha avuto figli lo vede proprio questo bisogno di punti di riferimento: se io non li ho in un certo contesto, o ne ho altri che sono negativi, il ragazzo lì si sente protetto e sicuro; lì si identifica e trova la sua appartenenza. Chi spezza questi circuiti? Ricordo quando noi lanciammo quella grande sfida, andando a fare il campo nazionale antimafia di Libera a Madonna dei Polsi, che è il luogo dove i grandi boss della ‘ndrangheta’, dopo la festa della Madonna a settembre, fanno le loro riunioni per studiare le strategie, per capire i mercati, e così via. Allora dissi ai miei amici: “andiamo in questi giorni in cui loro dovrebbero esserci; andiamo anche noi, da ogni parte d’Italia, a fare un campo a Madonna dei Polsi”. Il campo finì con 60 uomini della Folgore e del Tuscania sui tetti delle case per proteggerci…Dovettero portarmi via con l’elicottero, perché all’ultimo giorno, nelle ultime ore, non si usciva se non con la pistola, superando i 60 uomini delle forze dell’Ordine che sbucavano da tutte le parti. Il campo però lo facemmo! La RAI non riuscì a mandare in onda i servizi se non dopo, perché non le permisero di arrivare; le centraline del telefono furono fatte saltare tutte in modo da tagliare le comunicazioni.

Ma attenzione: quando noi arrivammo, due giorni prima era stato sciolto per mafia il Comune di S. Luca; il Governo aveva deciso presso il Prefetto che era bene che noi non avessimo l’imbarazzo di arrivare lì con il Sindaco mafioso. Quando i carabinieri notificarono alla giunta il commissariamento del Comune di S. Luca, furono uditi colpi dietro un muro: accorsero  a vedere che cosa succedeva e beccarono 7 ragazzini di 9-10 anni che si esercitavano con dei fucili a pompa. I figli della mafia. E’ una realtà concreta nella storia d’Italia, dove negli ultimi 10 anni abbiamo avuto 2.500 morti di mafia e 155 vittime innocenti. E chi ne parla? C’è l’emergenza Locri, c’è l’emergenza Scampia; i mass media accendono i riflettori per l’evento clamoroso, ma nel nostro Paese noi abbiamo una guerra che si compie tutti i giorni, e quando dico mafia dico traffico di armi e di esseri umani, mercato di sostanze stupefacenti seguiti dall’usura, l’estorsione, il caporalato e il lavoro nero; dico ecomafie, dico doping …

E’ Libera che ha denunciato due anni fa che dietro al dopping, al di là dei grandi campioni, c’è un mondo amatoriale che ne fa uso; un mercato criminale. E quando nell’isola di Cipro furono rubate 4.700.000 fiale di sostanze dopanti, per portarle via ci volle una nave frigorifero; per smistarle ci vollero camion con cella frigorifera; e dove hanno trovato queste fiale? In palestra. Molte palestre sono oneste, sia ben chiaro. Le procure hanno poi lavorato e nel 25% delle palestre noi troviamo che c’è il crimine, c’è spaccio. Dietro questo vasto mondo c’è la criminalità organizzata di stampo mafioso. In questo campo la camorra è quella che ha saputo gestire meglio.

Quando hanno proposto di fare una tregua olimpica sul doping, noi siamo insorti subito. Il dr. Pescante è venuto subito a trovarmi a Torino per dire: “Ma noi non vogliamo…”. Dico: “scusate, da una parte volete criminalizzare i ragazzi con la droga, perché bisogna pagare questo prezzo alla politica, al consenso che qualcuno cerca; dall’altra parte volete sospendere la legge italiana sul doping per la tregua olimpica. Credo che non ci sia coerenza; io sono d’accordo se si fa anche l’altra cosa: decriminalizzare con una legge, secondo quanto abbiamo sempre richiesto noi, che siamo per educare e non per punire.” Paletti chiari, paletti fermi: prevenzione, percorsi educativi, corretta informazione non episodica ma nella continuità dell’azione. Capacità di leggere il cambiamento e le trasformazioni, ma anche, vi prego, di smetterla di giocare sul tema della droga. In Italia la percentuale più alta di consumatori di sostanze stupefacenti sono gli adulti. E’ un dato di fatto e allora, dico: si affronti seriamente il problema, ma senza implicazioni come quella calamità di equiparare per legge le droghe leggere a quelle pensanti. E mai possibile che non si possa affrontare il problema in modo diverso e che si debba sempre enfatizzare lo strumento penale rispetto agli interventi di natura sociale? E’ quello che abbiamo visto anche per i figli della mafia: mancano le politiche sociali; non si lavora con le famiglie; non si creano opportunità sul territorio; non si valorizza la scuola… Si dovrebbe puntare sui diritti, sulla giustizia sociale, sui servizi, sul coinvolgimento di massa e di ciascuno, col suo ruolo e le sue responsabilità, dando dignità agli interventi e alla presenza delle persone.

Moralità e legalità: due crisi che si tengono
Altro punto, velocissimamente perché il tempo vola e chiedo scusa. E’ la crisi della legalità nel nostro paese. Lo dico dal punto di vista dell’educatore, non ho altro titolo. E’ inquietante la caduta del senso della moralità e della legalità nella coscienza e nel comportamento di molti italiani. Chi ha un ruolo e una responsabilità pubblica – come in questo momento il sottoscritto che sta parlando, tu come deputato di questa Repubblica, tu come professore di Università, molti di voi con i vostri ruoli e le vostre responsabilità – ha due istanze alle quali deve rispondere: una individuale ed una sociale. Se hai un ruolo pubblico non è che te la vedi solo con la tua coscienza; non ci sono solo le dimensioni individuali; tu, per il ruolo che gestisci, hai anche una responsabilità etica comunitaria, sociale. Questo è importante. E la cattiva testimonianza è uguale ad un’imitazione negativa perché c’è questo tipo di ricaduta; una buona testimonianza ha anche un’imitazione positiva.

E’ fondamentale l’aspetto educativo. Quando andiamo a predicare ai ragazzi il rispetto delle regole – che comincia dalle piccole cose, dalle azioni minori – e ti alzano la manina e ti dicono: “ma come mai il mio papà ha pagato tutto e poi è arrivata questa cosa che si chiama condono?”. Il fatto che vincano sempre i più furbi, guardate, non è una cosa così da poco: è una ferita dello Stato perché è la dimostrazione che esso non riesce a far rispettare le sue regole. E poi cancella tutto e vincono sempre  quelli che hanno preso la scorciatoia. E allora voi capite che quando qualcuno dice che non si possono fare leggi forti con i deboli e deboli con i forti non è uno slogan, ma una realtà. Noi  sugli immigrati e sul mondo delle dipendenze interveniamo in un modo, mentre dall’altra parte si prendono le scorciatoie!

Dai favori ai diritti
Aveva ragione Carlo Alberto Dalla Chiesa. Dopo alcuni anni a Palermo – uomo intelligente che aveva naso; faceva sintesi in fretta; era anche arrabbiato perché lo avevano mandato a fare il super prefetto senza gli strumenti per poterlo fare – disse: “Lo Stato dia come diritto ciò che le mafie danno come favore”. E io, cari amici, devo proprio confermare questo, oggi più che mai. Se il bisogno delle persone non diventa diritto-dovere inevitabilmente diventa merce o favore. Allora: certamente l’affermazione della legalità, ma anche la garanzia dei diritti sociali. Certo ci vuole la lotta alla criminalità mafiosa, politica ed economica, ma occorrono anche risposte concrete al dramma della disoccupazione – abbiate pazienza – perché noi ci troviamo ad affrontarlo tutti i giorni.

La mafia è bravissima sapete; in questo vuoto è bravissima. Ho letto sul Corriere della Sera, che il signor Campanella (che è quel signore che adesso collabora con la giustizia; uomo di Provenzano, che gli ha fornito i documenti per andare ad operarsi all’estero), ha dichiarato che lui alle conferenze di Don Ciotti ci andava sempre. Non solo, ma che cosa ha fatto Campanella? Che cosa può fare la mafia oggi? Ha fondato un’associazione antimafia, diretta da Campanella e sta dichiarando che è stata una scelta. Capite allora che fanno gli osservatori, sono sempre presenti, prendono appunti, come voi, adesso, che gentilmente mi state ascoltando.

Ricordate quella ragazza nella Cattedrale di Palermo che piange, che grida, che prega davanti alla bara del marito e dei colleghi, Rosaria Schifani. Io vi leggo quelle parole che hanno girato il mondo, che vi prego di non dimenticare: “Uomini senza onore, avete perduto; avete commesso un errore grande, perché tappando cinque bocche ne avete aperte 50 milioni”. Poi ha tanta forza questa ragazza e dice: “Vi offro il mio perdono, inginocchiatevi e cambiate”. Ce ne vuole di forza! Io la ricordo quando batte i pugni sulla bara del marito, disperata e poi contro il carro funebre.

Tornare alla politica vera
Libera il 21 marzo di ogni anno celebra la Giornata dell’Impegno e della Memoria. L’anno scorso quella donna non ha potuto venire a Roma e ha scritto questa lettera che vi leggo. Sono poche righe; c’è una parte più riservata, più personale, ma penso di farvi un dono leggendo alcune righe di una ragazza alla quale hanno ucciso il marito, spezzando una grande storia d’amore appena cominciata (era poco che era sposata); le sue parole non hanno prezzo, sono immense; mi creano sempre inquietudine. Dice: “Il nostro compito è quello di dare un esempio di legalità e di giustizia” (lo dice lei, pensate!). “Il passato ci accompagnerà fino alla fine dei nostri giorni perché il passato è storia, ma soprattutto quello che è successo ha sconvolto le nostre vite e i nostri progetti. Possa esserci una fase di rinascita. Ricordando insieme i nostri cari compio un atto di carità e di amore. Quello che ti chiedo come cristiana e come cittadina è di fare capire tutto ciò alle istituzioni che ci governino con legalità e giustizia, che diano un esempio, che ci guidino in questo lungo e tortuoso cammino”. Dice poi della politica: “Dobbiamo dire no all’onnipotenza della politica; sì a quella politica vera che ascolta la storia ed i percorsi della gente”.

Il primato della politica è fondamentale. Papa Paolo VI, cardinale in questa città, Papa Montini, al Concilio Ecumenico Vaticano II, non a caso, disse che la politica è la più alta forma di carità; è il servizio per il bene comune. Cè chi lo fa nel governare o nell’amministrare, ma c’è una dimensione in questa tensione politica che deve appartenere a tutti, perché il bene comune chiede la responsabilità di tutti. Allora rispetto a questi scenari, a queste inquietudini, a questi volti nuovi che noi tocchiamo con mano, credo che noi dobbiamo avere il coraggio della parola di denuncia, ma anche del progetto, della proposta, del nostro esserci.

Non possiamo tacere
Io ricordo sempre Padre Anastasio Ballestrero che è stato per due volte Presidente della CEI; l’unico che fece tacere il Papa. A Loreto, ha fatto storia: “Lei faccia il Papa, io faccio il Presidente della CEI. In questo momento io…..” e disse delle cose molto chiare. Lui era veramente un uomo di Dio, un mastino di Dio, un polmone di Dio. Si faceva chiamare “padre”, non eminenza, non eccellenza.

Un giorno, per me molto amaro perché c’erano stati attacchi e strumentalizzazioni – lui non era più vescovo di Torino, era già molto malato – ci siamo incontrati e mi disse cose così belle, come un padre: “Coraggio, Luigi, non scoraggiarti, sapessi che cosa hanno detto di me; mi hanno attaccato quando ero Generale dei Carmelitani Scalzi. Devi andare avanti”. Noi raccoglievamo le firme per la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi ed ai corrotti, oggi legge dello Stato solo in parte (limitatamente ai mafiosi; non fu possibile far passare la parte sui corrotti). Abbiamo già le cooperative di giovani che lavorano su quei beni confiscati, un segno che se si vuole è possibile cambiare qualcosa…”Non scoraggiarti, vai avanti, lascia che dicano”. Era uscito un lungo articolo di attacco su Panorama; io credo che la critica sia doverosa, non l’insulto e la calunnia. Lui l’aveva letto, ci aveva sofferto. Un padre. E mi disse queste parole, mai dimenticate, che voglio condividere con voi: “Non dimenticarti che anche la denuncia è annuncio di salvezza, annuncio santifico. Noi non possiamo tacere, non dobbiamo tacere, bisogna avere il coraggio della parola”.

Liberare la libertà
Due parole, con cui chiudo, che si abbracciano l’una con l’altra. La prima è “libertà”, questo grande valore: tu l’hai trovato in questo libro, anche se non è più aggiornato. La SEI chiese un libro sulla droga. Io dissi: “No, mi spiace: vorrei leggere i problemi delle carceri, degli immigrati, delle varie forme di dipendenza… Un libro che dia una mano ai ragazzi con delle schede, con riflessioni, con un linguaggio più o meno a loro vicino”. Beh, ha fatto 200 mila copie. Lo so che non cambia il mondo, però nelle scuole è stato usato; è stato uno strumento. Ne stiamo preparando un altro che tenga conto dell’oggi, senza però seguire le mode: spesso si affrontano i temi nuovi dimenticando quelli antichi che continuano ad esserci con la loro problematicità e richiedono la stessa forza e la stessa attenzione di quando erano di moda.

Certamente una cosa per me è stata sempre importante (credo lo sia anche per voi), ieri come oggi; anzi mai come oggi: dobbiamo sostenere l’altro partendo dalla sua libertà, non dalla sua povertà, non dalle sue dipendenze. Io devo partire a sostenere una persona avendo una persona libera davanti a me e, quindi, dobbiamo creare le condizioni affinché la gente sia libera. Chi vive in un territorio di mafia non è libero; chi dipende dalle sostanze non è libero; chi batte sulla strada non è una persona libera; l’usura rende schiave le persone, crea ansia, fatica, sofferenza; chi nel caporalato lavora in nero non è libero. Noi dobbiamo liberare la libertà; la libertà va liberata.

Diritto alla verità
La seconda parola forte è “verità”. Abbiamo bisogno di verità perché la sensibilità alle ingiustizie, ai diritti calpestati, a tutto quello che ci siamo detti oggi e alle tante altre cose che voi in questo percorso formativo affrontate, è anche un fatto culturale, non solo etico. Per ottenere giustizia bisogna conoscere e bisogna sapere nel modo giusto. Per combatterle bisogna conoscerle le ingiustizie e le cose che non vanno. Allora qui c’è un problema di informazione; c’è un diritto ad essere informati e a informare. Se io non sono messo in grado di conoscere, conosco solo in parte, o se l’informazione mi calamita solo in un certo modo… Il paradosso, per me il più grande paradosso che c’è, è che nell’era della comunicazione noi viviamo la povertà dell’informazione. E’ la verità! Guardate che non è casuale, no; non è casuale quell’anestetizzarci solo con certe cose; no non è casuale, è un anestetico intenzionale!

Questo non vuol dire che non ci sia gente brava che lavora nel mondo dell’informazione; sia ben chiaro, questo non vuol dire che non ci siano persone che lottano all’interno di quelle reti; io ne conosco diverse, bravi giornalisti che lottano per riuscire anche a portare dei contenuti, delle conoscenze, per far crescere la responsabilità delle coscienze della gente, la consapevolezza, una concreta informazione. C’è bisogno di verità. Quattro giorni prima di essere ucciso a Paolo Borsellino chiesero: “Dottore lei ha paura?”. Lui amava la verità: “Sì, ho paura, ma importante è avere tutti più coraggio”.

Io credo che rispetto alla storia della gente…vi ho parlato delle dipendenze, ma solo di striscio, del carcere, vi ho parlato degli immigrati, vorrei parlarvi di tanti altri problemi sociali che certamente ci toccano da vicino: la tratta degli esseri umani, il segmento della prostituzione, c’è un lungo elenco di questi volti. Abbiamo parlato della solitudine, della fatica di tante persone; della depressione; abbiamo parlato di quei giochi criminali che si nascondono dietro. Ecco, tutto questo ha bisogno della nostra attenzione, della nostra coscienza, del nostro impegno.

Costruire speranze , lavorando sulle “e”
Noi alla politica chiediamo di mettere al centro la storia delle persone, di partire sempre da lì. Ai partiti chiediamo di fare delle politiche; politiche vere, e una politica che non sappia trasformare non costruisce speranze. L’augurio è che ognuno con le proprie responsabilità, sappia tracciare e aprire percorsi di speranza, ma solo con la partecipazione e il protagonismo di tutti e con l’ascolto non strumentale. A volte ci chiamano: “venga a dirci qualcosa su quel tale problema”; a volte ci chiamano…Sulla mafia non ci hanno chiamato ed hanno preparato un blitz che noi abbiamo bloccato con l’aiuto di tanti.

L’articolo 3 del nuovo disegno di legge sulla mafia è di un’abilità strategica; un regalo alla mafia: qualsiasi persona giuridicamente interessata potrebbe, senza limiti di tempo, anche fra 20 anni, ricorrere su beni già confiscati, destinati e diversamente utilizzati . Quindi le nostre cooperative ormai operanti in Puglia, Calabria, Campania, Sicilia e Nord d’Italia (perché la mafia ha investito molto anche qui) sono esposte verso chiunque: un antico parente, che spunta fuori, può ricorrere; poi non importa che cosa può succedere; chiunque può ricorrere. E’ un precariato. Dove sono i diritti di cui ho parlato all’inizio? Il precariato per i beni confiscati. Capite che è molto inquietante questo: si vogliono aprire finestre nuove, si crea un precariato, perché la mafia la disturbi se le tocchi il portafoglio.

E questo lo sappiamo bene perché alcuni collaboratori hanno dichiarato che tre cose li disturbano: il carcere duro, la confisca dei beni e “quelli là”. E qualcuno si è chiesto: «ma chi sono questi “quelli là”?» Ci ha fatto piacere! “Sono quelli di Liberal” “ha detto; e poi “Sono quelli di Libero”, ma scusi quelli proprio….saranno quelli di Libera. “Ah sì, sì; proprio quelli”. Noi siamo contenti, non è che facciamo i salti di gioia, ma la società civile organizzandosi, facendo la sua parte, può portare un contributo serio di trasformazione e di cambiamento per dare speranza.

Ma solo lavorando sulle “e”; solo lavorando sulle “e”.

Il nostro presente e il pensare il futuro ha bisogno di ritrovare la libertà delle “e” che ci educano a fare insieme, a cercare quello che unisce e non solo quello che divide. Parliamo di: educazione e prevenzione; accoglienza e cultura; legalità e giustizia; solidarietà e impegno; nord e sud; centralità della persona e territorio con le sue reti nazionali; spiritualità e laicità; pace e pratiche di non violenza; servizi organizzati, certo, ma anche elasticità per rispondere alle nuove povertà, ai nuovi volti; le regole ma anche la creatività nel servizio alla gente; la fedeltà alla storia e la ricerca del nuovo, con i piedi per terra, ecc.

Con questo augurio delle “e”, che ci vedono coinvolti tutti, credo che si possa costruire la nostra dignità e la nostra speranza. Grazie.

 

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