Perché tornare a Dossetti?

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Ritratto-Dossetti

Prefazione al libro di Giuseppe Trotta, Giuseppe Dossetti. La rivoluzione nello stato, Aliberti Studi Unipress, Reggio Emilia 2006

E’ Trotta stesso ad indicare la ragione dei suoi studi su Dossetti. E lo fa all’inizio della nota introduttiva  a questa biografia apparsa nell’aprile del 1996. Scrive infatti: “Il mio interesse per la vicenda politica di Giuseppe Dossetti è nato da un incontro tra la redazione della rivista “Bailamme” nel 1992 e il monaco ottantenne. Fu un’impressione fortissima: un’attenzione acuta agli eventi della storia si coniugava in lui ad una ricerca spirituale originalissima, capace come poche di porre anche al nostro presente domande essenziali.

Nacque allora il bisogno di ripercorrere, scoprire, studiare quell’antica vicenda, per lui finita e conclusa, ma che a noi si presentava come un passaggio da attraversare per capire meglio e più a fondo le nostre stesse domande e i nostri stessi problemi”.[1] La redazione di “Bailamme”(Romana Guarnieri, Benvenuto,  Natoli, Tronti, Trotta, Tomai…) fu sorpesa dall’approccio dossettiano: la politica è insieme occasione e passione. Occasione nel senso che si è presi dalla politica come Paolo sulla strada di Damasco. Passione tanto coinvolgente da non consentire di restare troppo a lungo sul terreno dell’impegno, anzi, sarà bene restarci soltanto fin quando si ha qualcosa di nuovo da dire…Da qui la ricerca faticosissima dei testi dispersi tra giornali e riviste e la ricostruzione di un itinerario complesso perché costituito di tappe differenti ma tutte vissute con intensità.Trotta non legge Dossetti: lo insegue. Lungo una via dove eremo e metropoli costituiscono un logo da ricomporre.

Perché dalla scissione di eremo e metropoli è scaturita la laicità dei moderni. La fine delle guerre di religione ha prodotto l’affidamento degli europei ai lumi. Cattolici e diverse confessioni protestanti hanno cessato il reciproco massacro e sono stati tentati e attratti dalla ragione strumentale. Poi le cose hanno continuato la corsa fino ad approdare nei meandri della globalizzazione, che non è soltanto delocalizzazione delle imprese e finanziarizzazione della vita quotidiana. Lo stesso statuto della laicità dei moderni ne è risultato travolto, come ha riconosciuto il patriarca di Venezia, Angelo Scola, nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 17 luglio del 2005. Un nuovo campo di forze e nuovi contrasti. Guerre di religione post moderne e il rischio dello scontro di civiltà. Un nuovo ethos. Un’etica assente. Eremo e metropoli, nell’Europa di Caterina e Benedetto, ma anche di Cirillo e Metodio, l’Europa “a due polmoni”, sono chiamati a nuovo a confronto: a misurare prima le distanze e poi le vicinanze. Trotta intuisce l’inevitabilità della ri-problematizzazione del rapporto e per questo interroga le pagine e le azioni dossettiane. Rimette a confronto il Dossetti monaco e il Dossetti politico, perché la sua vicenda personale racchiude nel vissuto il caso di studio.

Se a Rossena non risultarono  maturi i tempi della Chiesa per fare da supporto alla riforma della politica, adesso il don Giuseppe che abbandona l’eremo sull’Appennino reggiano per discendere in campo sotto il vessillo del “patriottismo costituzionale”, ripropone ad un tempo il rapporto tra civile ed ecclesiale e s’avventura nella terra di nessuno di una nuova laicità possibile. Chiesa e politica unite nella lotta contro i nuovi barbari dell’antipolitica: “uomini del tempo, figli del giorno, privati di memoria e senza futuro”. 2 Se dunque là dove la modernità ha scisso religione e politica facendo sprizzare le forme della laicità degli Stati europei è oggi cancellato l’antico confine, si tratta di un ri-cominciare perché in forme affatto diverse torni a funzionare quel che non funziona più. Indifferenza in materia politica e confusione in materia religiosa chiamano ancora una volta alla distinzione e alla lotta. E là dove il gusto della distinzione e la passione per la lotta, sia pure “alla plebea”, non si danno, la tragedia   riemerge dai sotterranei della storia. I duecentocinquantamila morti della dissoluzione della ex Jugoslavia narrano in tal senso le “gesta” degli ultimi barbari d’Europa. Ed è vicenda che non sta ai confini del Vecchio Continente e che non patisce di essere intellettualmente balcanizzata: Sarajevo, la Gerusalemme dei Balcani, è nel cuore di questa Europa come Madrid lo era negli anni trenta.

Dove rintracciare avvisaglie e prolegomeni di una nuova laicità? E’ davvero Dossetti il luogo minerario? Lo è nella fase in cui “la realtà consuma  pensieri come il mattino dissolve sogni”?3 Non è il Giuseppe Dossetti politico (Joseph somniator) un repertorio di ininterrotte sconfitte, al vertice del partito, nella regia dell’azione parlamentare, nella vita amministrativa di Bologna? Ci rassicura e sospinge Mario Tronti: “Capita spesso che le vie della teoria si aprano sulle sconfitte della pratica”.4 E tutta la vicenda successiva è lì a testimoniare l’imprevista fecondità delle sconfitte dossettiane….Per questo Trotta  interroga Dossetti. La sua non è né “gaia scienza” né “triste scienza”, ma cocciuta ermeneutica. Avendo chiaro che gli avvenimenti incalzano e ci sospingono l’anno dopo, il  mese dopo, ma anche il giorno dopo su una diversa linea del fuoco.

Trotta giovanissimo era entrato in convento. Inoltrandosi in una pensosa maturità aveva preso parte alle lotte dei sessanta e dei settanta. Il nesso tra profezia e politica, tra militanza e Regno di Dio lo riguarda. Perché mentre tenti di andare a fondo della verità dei fatti vai senz’altro al fondo della tua verità. E la tensione è questa: tenere collegati il pensare e l’agire: vita e pensiero. Non è quindi fuor di luogo rileggere il dossettismo   con l’occhio alla profezia dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld. Domandarsi se l’attivismo politico possa essere secondo la mente di Dio.

Viene alla mente la ripresa che Erich Fromm fa della testimonianza e della teologia di Albert Schweitzer, il santo di Lambarané: “Schweitzer, teologo protestante, al pari di Eckhart, il frate domenicano, batte e ribatte sullo stesso tasto: compito dell’Uomo non è di chiudersi in un guscio di egoismo spirituale, distaccato dalle attività mondane, bensì quello di condurre una vita attiva attraverso la quale tentare di contribuire al perfezionamento spirituale della società: “Se, tra gli individui d’oggi, così pochi sono coloro i cui sentimenti umani ed etici sono rimasti intatti, lo si deve non da ultimo al fatto che essi costantemente sacrificano la propria moralità personale sull’altare della patria,  anziché porsi in un continuo, vivente interscambio con la collettività, e di contribuire a darle quella forza che la spinge verso la perfezione”.5 Secondo Schweitzer l’attuale struttura culturale e sociale è incamminata alla catastrofe, dalla quale può redimerla soltanto un nuovo rinascimento. “E’ evidente a chiunque” scrive “che siamo in pieno processo di autodistruzione della cultura. Inoltre, ciò che rimane non è più affatto sicuro, e se resiste è soltanto perché non è stato sottoposto alle pressioni distruttive che hanno già travolto tutto il resto; ma anche il residuo è costruito sulla ghiaia (Geröll) e la prossima slavina (Bergrutsch) può spazzarlo via. La capacità culturale dell’uomo moderno è sminuita dal fatto che le circostanze ambientali lo sviliscono e lo danneggiano psichicamente.6  Ne consegue che “se si accetta il mondo per quello che è, risulta impossibile attribuirgli un significato tale per cui gli obiettivi e le mete dell’uomo e dell’Umanità appaiono dotati di un senso”.7 Se dunque questo mondo è insensato, un senso gli va ridato, perché risulti a qualche titolo vivibile. E’ il compito della politica, attività “sintetica”, piuttosto che della economia. Politica secondo il senso e non secondo il potere, le sue corse e le sue carriere. Qui il teologo Dossetti incontra il Dossetti politico e Joseph somniator si fonde con l’amministratore. E’ l’incontro interiore che importa a Pino Trotta nel tempo in cui i politici si pensano soltanto secondo il potere. O, per meglio dire, sulle orme di Severino, sono “pensati” dal potere, dal momento che non noi prendiamo il potere, ma i poteri prendono noi. Dal momento che i politici pensano se stessi nella loro evidente miseria, deprime il confronto tra  Prima e  Seconda Repubblica: quasi il constatare che son nati dei nani da una progenie di giganti….Una fase storica dove la superfetazione delle scienze e soprattutto dei loro surrogati ha eliminato lo spazio della saggezza. L’eremo è lo spazio della saggezza, mentre scienza e tecniche attraversano i territori della metropoli. E faceva problema al Trotta l’approccio di una Chiesa che si è affrettata a legittimare economia e proprietà anziché inquietare e animare la politica. E si spingeva a leggere in questa diversione, in un nodo irrisolto perché sottovalutato o neppure preso in considerazione, l’intuizione vincente e insieme il dramma della sconfitta dossettiana.

Forse vale per il cattolicesimo e il popolarismo quel che diciamo dello spazio balcanico: abbiamo prodotto più storia di quanta siamo in grado di consumare….Continuiamo a produrre icone e simboli, dal valore non soltanto numismatico. Produciamo in piccole dosi militanza. Eccessi di nostalgia. Non produciamo più organizzazione. E sarebbe bene non dimenticare che don Sturzo e Dossetti, oltre che custodi di fondamenti, furono anche geni organizzativi. E una cultura, soprattutto una cultura politica, scema e si disperde se non viene organizzata.

A volte studiare un personaggio vuol dire collocarlo, fare i conti con lui, depositarlo in qualche scaffale della storia e procedere oltre, avendolo per così dire assimilato, digerito…. Con Dossetti questo sarebbe un atteggiamento sbagliato. Dossetti non è digeribile, come non è digeribile nessun cristiano che abbia tentato di esserlo “con tutte le sue forze”.

Non c’è un Dossetti politico separato dal Dossetti cristiano: le intuizioni più profonde della sua iniziativa politica gli erano consentite dalla radicale apertura della sua esperienza di fede, che era una esperienza di “compagnia” con gli uomini, testimonianza, come ha scritto Paolo Pombeni, che il cristiano non è estraneo alle vicende della storia, ma in compagnia di quanti le attraversano sospinti da una sete di verità e di giustizia. Non c’è dunque un primo e un secondo Dossetti, non c’è il politico prima e poi il monaco, c’è, semplicemente, il cristiano. Certo cambia l’esperienza della propria vita, ma non la direzione di marcia. Una cosa è partecipare alla formazione della Costituzione, essere tra i leader più influenti del partito, essere tra le alternative possibili alla leadership degasperiana, altra cosa  è essere monaco, partecipare al Concilio, essere pellegrino in terra santa. Due   momenti della vita di don Giuseppe diversi, ma orientati da una stessa, medesima fedeltà.

E’ notorio come Dossetti abbia attraversato la sua lunga esistenza tra testimonianze di particolare interesse. Penso a quelle della famiglia, della madre, dell’ambiente ecclesiale reggiano che tanta parte avrà nella formazione di don Giuseppe. Pino Trotta, ermeneuta più che biografo, ricompone il puzzle con paziente puntigliosità e con inimitabile acribia filologica. Le pagine di questo testo trasudano un approccio tanto disciplinare quanto lontano dall’accademia. Si tratta, suggerisce Trotta, di ri-scoprire Dossetti, non di illustrarlo. Sono talvolta particolari inediti, che danno in pochi cenni tutta la profondità di una formazione originale, in un ambiente familiare originale, in una chiesa locale originale.

Sì, bisogna dirlo: don Giuseppe ha avuto anche tanta fortuna dal Signore. Senza questi incontri, senza questi personaggi, senza questi rapporti così intimi non si spiega la sua straordinaria vicenda umana e spirituale.

Non a caso tutto converge lì, tutto inizia e si chiude lì, in quella centralità della Parola e dell’eucaristia che è l’alfa e l’omega della sua vita cristiana.

Sì, tutto Dossetti alla fine va a parare lì, in quel gusto per la Parola che alimenta, sospinge, stritola e apre incessantemente alla storia degli uomini. Qui è il luogo dell’esperienza  profetica di don Giuseppe: la parola ascoltata ogni giorno, ogni momento, letta, riletta, meditata, ruminata.

Da questa Parola nasce la profezia. Anche l’ultima di Dossetti, anche la sua ultima vicenda politica in difesa di una Costituzione che sembrava soccombere sotto i colpi di una nuova barbarie. Come San Saba don Giuseppe era ridisceso nella città degli uomini.

E infatti Dossetti non sarebbe venuto così alla ribalta se non ci fosse stato questo passaggio critico che alcuni indicano come fine della prima repubblica e inizio della seconda. Egli rientra nello scenario politico e lascia il suo spazio monacale per continuare a parlare di Costituzione. La Costituzione può essere cambiata, ma bisogna essere avveduti nel salvaguardare lo spirito della prima Costituzione, difenderla da operazioni che possano restringere gli spazi di libertà. La crisi politica ha messo in luce i deficit costituzionali. Non sono stati però i limiti costituzionali che hanno portato alla crisi politica, ma è stata la crisi politica, come crisi di rappresentanza, che ha mostrato i limiti della Costituzione. E’ possibile cambiare la Costituzione, ma in uno spirito che deve essere quello delle garanzie della libertà e della democrazia.

L’intervento di Dossetti non lo si deve pensare in termini restaurativi, ma in termini propositivi dello spirito della “prima” Costituzione.

La crisi che stiamo vivendo non è stata una crisi costituzionale, ma politica: si è incrinato un modello di organizzazione politica che risale nel tempo agli anni del Dossetti politico. Abbiamo visto andare in crisi un ceto politico e una organizzazione sociale le cui premesse sono in quegli anni. C’è allora una attualità di Dossetti in modo del tutto paradossale: non possiamo certo tornare a quegli anni, ma la sconfitta di Dossetti è indicativa di cose alternative, che si sarebbero potute fare e che probabilmente non avrebbero condotto a questo esito. Ciò che è stato sconfitto nella storia (e certamente l’uscita dalla scena politica di Dossetti è stata una sconfitta) non vuol dire che sia sbagliato, può essere sbagliata la storia che ha avuto corso… Non ci deve essere insomma un eccesso di realismo politico rispetto alle cose che non hanno avuto corso; spesso esse indicano un’occasione mancata.

Così pure il rapporto De Gasperi-Dossetti deve essere problematizzato in questi termini. E’ verosimile che nel contesto di politica internazionale e di rapporto di forze interne non si potesse fare molto di più di quello che De Gasperi ha fatto, tuttavia si poteva immettere nella politica italiana qualche elemento maggiore di innovazione, almeno alcuni elementi della proposta politica di Dossetti potevano essere veicolati. Trotta è attento nel raccogliere e nel presentare il repertorio dei mattoni dossettiani lasciati in disparte . C’è nella sua ricostruzione l’accanimento fedele e quasi maniacale dello scriba che non vuole dimenticare nell’inventario neppure una delle pietre del maestro e del profeta scartate dai costruttori.

E’ Bartolo Ciccardini a risvegliare una memoria collettiva sopita, in un articolo comparso sull’”Unità” del 23 dicembre 2005. “Non tutti sanno che le prime elezioni primarie per la scelta dei candidati che si svolsero in Italia furono celebrate a Bologna, il 19 Marzo 1956, l’anno della grande neve. E’ stato un evento che oggi riveste uno speciale interesse.

Dossetti  si era già ritirato dalla vita politica, perché la sua vocazione religiosa era maturata, anche attraverso una lunga e grave malattia, già nel 1953.” Ciccardini – che fu l’organizzatore della inedita performance elettorale – rileva: “E’ inutile ricordare la eccezionalità  di questa scelta, che sollevò scandalo ed entusiasmi. Bologna era il centro della cultura e del potere del comunismo italiano, nella sua versione popolare e democratica. Lercaro era l’avanguardia del rinnovamento conciliare cattolico che osava lanciare un vero e proprio guanto di sfida. E’ un episodio della nostra storia che non è stato sufficientemente studiato e che ha avuto esiti allora impensabili. Dossetti fu sconfitto, ma il comunismo italiano adottò il suo progetto di “Comune dei servizi”, si innamorò di lui e lo onorò.” Quale il clima? “Allora il Partito Comunista reagì da par suo e dalla sua parte si schierarono cattolici come Jemolo e Rodano, con argomenti forti, denunciando e ricordando le sofferenze di Bologna ai tempi del “Cardinal legato” ed il ritorno ad un passato in cui non si praticava l’autonomia politica dei cattolici.  E non è forse fuor di luogo rammentare come in una celebre intervista il cardinale Giacomo Biffi, allora arcivescovo della città felsinea, rilevasse che lo sconcerto di tanta parte dell’opinione cittadina nei confronti di alcune sue prese di posizione dovesse addebitarsi all’esigenza di un recupero di laicità per una città ferma ancora ai tempi e ai timori del Cardinal legato.

Dossetti, che era stato un difensore dell’autonomia politica di cattolici contro un certo “integralismo” di Gedda e dei suoi, accettò la difficile prova per obbedienza, quasi fosse una prova di esame della sua vocazione monastica. Ma si rese conto che la obbedienza era sua e non poteva essere imposta al partito che avrebbe dovuto candidarlo. E condizionò la sua accettazione della candidatura con la celebrazione di elezioni primarie nella Democrazia Cristiana”.

Ed ecco l’epilogo: “Le primarie si svolsero nella grande sala della Borsa di Bologna. Per il manifesto che le indiceva fu scelta l’immagine della assemblea dei Santi, da un affresco della chiesa di San Petronio, caro al popolo di Bologna. Per l’occasione Dossetti elaborò il pensiero che la scelta dei candidati fosse un momento di unità morale della comunità. Scelse il giorno di San Giuseppe e siccome sia lui, sia Dozza si schiamavano Giuseppe, lo invitò, come Sindaco, a presiedere le primarie del candidato a lui avverso. Dozza,  che non era un ingenuo, subodorò una trappola che forse non c’era e, gentilmente declinò l’invito”.

Come sottrarsi alla suggestione che il cronista e il memorialista abbiano in questo caso come riferimento letterario I fioretti francescani? Ma  resta l’invenzione anticipatrice. Resta l’inedito connubio tra tensione etica e immaginazione politica creatrice, che segnerà cuore e visione di giovani teste d’uovo e attivisti, come Nino Andreatta, che facevano allora parte della disperata squadra d’assalto dossettiana. Davvero “eccessivo” l’anticipo, tale da rimandare alle amare considerazioni nietzschiane per quanti vivono un “maledetto” anticipo rispetto ai tempi della storia. Resta un inno alla passione e all’intuizione, a un “pensare politica” oggi introvabile e che un dossettiano della prima ora come Aldo Moro così, inascoltato, commentava: “Il pensare politica è già per il novanta percento fare politica”. Resta, soprattutto, il paradosso e l’ossimoro dossettiano tutto interno, ma ormai evidente, alla insospettata fecondità delle sue sconfitte…

Guardare Dossetti oggi riportandolo a quegli anni vuol dire fare una riflessione più approfondita di quanto normalmente non si faccia sul cattolicesimo politico italiano, e quindi liquidare dei luoghi comuni. Uno dei classici luoghi comuni dell’interpretazione dossettiana è quello del suo integrismo. Una interpretazione caratterizzata da particolare superficialità e cecità. Nella Chiesa c’era allora una linea chiaramente integrista, quella stessa contro cui si sono dovuti misurare De Gasperi e Dossetti: era la grande tradizione dei Comitati Civici, di Gedda, di padre Lombardi, quella di Cristo Re. Era un’idea “imperialista” della Chiesa: una verità che diventa Stato, un progetto teocratico. Contro questa immagine di Chiesa reagì anche Sturzo.

De Gasperi risponde a questo progetto teocratico cercando di salvaguardare la neutralità delle istituzioni: lo Stato doveva avere il suo spazio di autonomia. Egli risponde da personaggio di antica e classica tradizione liberale: lo Stato è lo spazio della rappresentanza dei cittadini e quindi possono entrare nella vita politica attraverso i partiti opinioni, espressioni, ispirazioni, ma nessuna di queste deve monopolizzare lo Stato, neanche quella cattolica. De Gasperi proponeva una distinzione molto chiara dei poteri e quindi in quanto uomo di Stato aveva la forza di disobbedire anche al papato.

Dossetti recepisce invece in modo molto forte l’ispirazione cattolica. Non si trattava di rendere cattolica la società ma di mettere dentro la società quegli elementi propri del cristianesimo come la socialità, la tensione alla giustizia, il senso comunitario… L’ispirazione cattolica doveva essere funzionale a che un’idea di società entrasse nella politica, senza però ridurre la politica al cristianesimo.

In questa posizione c’era una dinamica antagonista rispetto alle forze avverse, antagonista sui princìpi. Nei partiti, nelle grandi organizzazioni queste diversità di ispirazione sono feconde. Lo Stato come potere neutrale deve permettere una dialettica di ipotesi diverse di società che si confrontano e si accordano, attraverso un conflitto di motivi, valori, intenzioni. Senza questa la politica perde energia. Lo Stato non può identificarsi con nessuna forza in campo, ma ogni ispirazione deve poter avere un suo spazio di dialogo. L’intenzione di Dossetti non è quella di rendere cattolico lo Stato, ma i cattolici devono avere un loro messaggio da portare alla società e su questo confrontarsi con gli altri. Confrontarsi e decidere su questa base ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

In questo contesto possiamo capire la posizione di Dossetti nei confronti del comunismo.

Forse non c’è posizione più chiaramente anticomunista di quella di Dossetti. Si potrebbe forse fare un confronto con Mounier che viene da una diversa formazione culturale. E’ un forte anticomunismo nella sostanza perché centrato sulla democrazia e sul personalismo che era un caposaldo della tradizione cattolica. Il concetto di persona è determinante: la persona è più dello Stato, però la persona è definita anche dalla sua relazione alla comunità. Ecco allora il punto discriminante che contrapponeva Dossetti in modo radicale al comunismo e al liberalismo: la persona si definisce in relazione alla comunità. L’immagine liberale dell’individuo astratto ed egoista era tanto sbagliata quanto l’altra di un assorbimento del soggetto nella unità statale con la perdita della libertà.

La posizione di Dossetti, personalista e antitotalitaria, è affine a quella di De Gasperi. Però per Dossetti lo Stato non è soltanto un organismo neutro: è un sistema di garanzia delle persone che sono radicate nell’ambiente, nella comunità. Per questo la Costituzione doveva rimuovere tutti i limiti materiali allo sviluppo della persona. L’elemento della socialità presente nella Costituzione sviluppa questa dinamica personalista in una relazione comunitaria che non è totalitaria. Furono la guerra e i suoi orrori a fare da levatrice allo spirito costituente, dal momento che si scrivono gli articoli della Carta mentre il Paese è ancora pieno di macerie. I costituenti ignorano perfino il termine “obiezione di coscienza”, ma se le ideologie di provenienza li dividono e contrappongono, sono sospinti dall’ansia comune di andare oltre gli interminabili anni di devastazioni per ricostruire insieme il medesimo Paese. Dirà Dossetti a Monteveglio il 16 settembre del 1994 della nostra Carta costituzionale: “Più che dal confronto-scontro di tre ideologie datate, essa porta l’impronta di uno spirito universale e in certo modo transtemporale”.

Dossetti è quindi fortemente anticomunista, ma in quanto anticomunista recepisce del comunismo le istanze di comunità. Per Dossetti bisognava disarmare i comunisti rispetto alla loro concezione di Stato e recepire le loro istanze di socialità. Ci poteva essere allora una alleanza sul piano dei contenuti.

Prima che la democrazia cristiana prendesse la maggioranza assoluta nelle elezioni del 1948 la posizione di Dossetti è quella di sviluppare non tanto la mediazione  politica ma la proposta programmatica: la DC doveva essere un partito programma. Quando la DC vince le elezioni l’istanza è non tanto quella di sviluppare alleanze ma  quella di sviluppare specificità: la DC, dice Dossetti, deve diventare responsabile della sua vittoria. C’era al fondo di questa impostazione una logica maggioritaria che in genere si sottovaluta: l’alleanza con i liberali avrebbe svilito il programma; la maggioranza assoluta doveva mettere capo alla realizzazione di una autonoma proposta. Si poteva fare benissimo una forte politica anticomunista sul piano delle istituzioni ma una forte politica sociale sul piano del programma.

La maggioranza assoluta, la centralità del programma, l’istanza partito diventavano una istanza maggioritaria. E’ chiaro che questa istanza maggioritaria era in termini di partito e non in termini di persone; si era in una fase diversa, si usciva dal fascismo e un ragionamento in termini di persone era percepito come pericoloso. Bisognava sviluppare organizzazione e programmi. Da questo punto di vista la logica di Dossetti non poteva essere maggioritaria nel senso nostro, era tuttavia chiaro che secondo lui chi vinceva doveva prendersi la responsabilità dell’attuazione del suo programma.

Il discorso di De Gasperi da questo punto di vista era più strategico: egli sapeva che la maggioranza assoluta raccolta intorno alla DC per il timore dei comunisti poteva sgretolarsi e che era opportuno coinvolgere le parti politiche anche se non c’era una coesione di ispirazione. La linea degasperiana  aveva una plausibilità. Tuttavia questa logica delle alleanze a scapito del programma ha indebolito l’iniziativa del partito e il suo potere di innovazione con un esito paradossale. Anche senza questa forza del programma e della sua applicazione, anche senza questa intransigenza positiva maggioritaria, il partito organizzazione di fatto prende piede. In quel momento nelle società moderne di massa, dopo il fascismo, dopo il totalitarismo, non fare il partito organizzazione voleva dire perdere. Il partito di massa era inevitabile, ma partito di massa come partito programma, come partito responsabilità.

Dalla scelta degasperiana nacque una situazione in cui il partito organizzazione si sviluppa, ma la sua forza la guadagna impossessandosi dello Stato, cioè privando le istituzioni della neutralità. L’accordo con gli altri partiti fu in questa deprivazione della neutralità dello Stato. Il deficit di assunzione di programma di fatto volle dire non un partito che si prende le responsabilità ma un partito che si infeuda nello Stato. De Gasperi certamente non pensava questo, questo è stato tuttavia l’esito. Forse nel quadro della politica internazionale dell’epoca una radicalizzazione programmatica era anche condizione di una diversa autonomia, cosa questa che non poteva essere gradita, dal momento che le dinamiche di schieramento e di obbedienza tendevano a frenare l’iniziativa. Qui si colloca il complesso problema dell’atteggiamento di Dossetti verso la politica estera: sì all’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, ma non una adesione passiva, ma partecipazione innovativa. Tanto più si era innovativi nella politica estera quanto più si era in grado di assumere responsabilità politica interna. La passività in politica estera corrispondeva anche a questa piatta alleanza sulla parte meno nemica. Era un principio che avrebbe prodotto guasti vistosi nel futuro. Era la logica del compromesso contro la logica della responsabilità.

La proposta dossettiana era forse prematura per la società del momento, però almeno in parte poteva essere recepita. Invece la sua sconfitta fu totale, come radicale fu la scomparsa del tema della responsabilità nella politica italiana.

Diminuì la responsabilità ma diminuì anche la cattolicità del partito. Un partito di ispirazione cattolica che fa programma tende a confrontarsi e ad essere differente. Noi abbiamo visto che la DC in quanto partito della moderazione, sotto l’alone dell’anticomunismo, prende tutto dissolvendo progressivamente la sua identità, anche l’identità cattolica. Essa soddisfece certamente interessi “cattolici”, ma per una parte non esigua nel senso materiale e volgare del termine. Si sviluppò così una corruzione politica del cattolicesimo, un do ut des, che invece una posizione cattolica di programma non avrebbe potuto consentire.

Confondere Dossetti con Fanfani è stato un grande errore perché il fanfanismo è la ripresa di un partito organizzazione sul fallimento dell’idea del partito programma di Dossetti.

Nella cultura del primo novecento non si sarebbe mai potuto produrre inclusione sociale senza lo Stato. Questo è davvero il nodo essenziale senza cui non si riuscirebbe a capire la storia del nostro secolo. C’era un antagonismo sociale indiscutibile, c’era una centralità operaia, esisteva una dimensione produttiva forte della grande impresa che faceva schieramento. C’era anche una dinamica di esclusione-inclusione: il produttore  di ricchezza che diventa anche titolare di diritti. Prendiamo il modello del New Deal, che è stato il grande passo in avanti, la grande differenza rispetto ai modelli totalitari ed eversivi: qui il produttore diventa consumatore. Consumatore vuol dire titolare di libertà, di diritti sociali: e quindi qui si imposta tutto il problema del Welfare State.

In una società e in una cultura ancora permeate dal liberalismo classico come quella italiana c’era un problema di inclusione sociale. Da questo punto di vista l’idea cristiana del bene comune è centrale in Dossetti: lo Stato ha fini, non nel senso integrista che l’intenzione cattolica è il fine dello Stato, ma il fine dello Stato è quello di promuovere la libertà, cioè di realizzare l’inclusione, cioè il bene comune. Si dovevano allora fare delle politiche che liberassero spazi alle libertà: c’è qui tutto l’aspetto sociale che entra nella Costituzione, una Costituzione che non è più soltanto di tipo formale, di definizione di equilibrio tra i poteri.

L’originalità della Costituzione italiana è che all’interno di questa dimensione formale dell’equilibrio dei poteri si colloca una intenzione politica all’uguaglianza. Lo Stato allora non solo ha fini, ma è il promotore di questo sviluppo. E qui Dossetti anticipa Vanoni, sulla scia di Capograssi. Se è vera l’idea cattolica che la società non è riducibile allo Stato, come era invece nelle concezioni totalitarie, bisogna però anche sostenere che la società può essere promossa nella sua dinamica sociale attraverso lo Stato. Quando Dossetti dice che lo Stato fa  la società, non dice che lo Stato la fonda, ma che la deve promuovere.

In un contesto di grande esclusione sociale questo atteggiamento è meno ingenuo di quanto  si possa pensare: è detto in termini di ispirazione cattolica quello che in tradizione laica apparteneva alle grandi politiche di welfare.  Ed è in questa prospettiva che recentemente Luigi Covatta ha potuto ridurre ad unum un lungo rosario di denominazioni: popolari, neopopolari, democristiani,  postdemocristiani, cattolico democratici, catto – socialisti, cristiano democratici e forse anche cattocomunisti… sotto l’etichetta di catto – keynesiani.

Una concezione e un’opera dunque utili se non essenziali per riprendere un discorso tutto interno al nostro presente.

Nel recente volume del Mulino in cui è raccolta una sua conversazione  del 1984 (insieme al fraterno amico Giuseppe Lazzati) con Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, Giuseppe Dossetti si trova a rispondere alle domande dei più giovani amici circa la sua formazione spirituale, intellettuale e politica. Con una certa sorpresa degli interlocutori egli afferma di non aver avuto nella sua formazione conoscenza diretta di maestri italiani e stranieri cui il suo nome sarebbe successivamente stato accostato, in particolare Sturzo, Maritain e Mounier, e alla precisa richiesta di Scoppola su dove avesse trovato le basi di un pensiero tanto originale nella vicenda del cattolicesimo italiano, egli risponde con semplicità “dentro di me, nel mio cuore”.

Affermazione notevole in un contesto come il nostro in cui le idee originali scarseggiano e la prassi corrente è quella di una continua rilettura e rimasticatura di testi altrui, al punto tale che idee vecchie e stravecchie come la cosiddetta “terza via” hanno avuto un successo recente e immeritato solo a causa dell’ inguaribile provincialismo dei nostri intellettuali e politici. Merito dell’indagine di Pino Trotta è aver ripercorso gli incunaboli per i quali la vicenda umana e politica di Dossetti era già significativa in quegli anni proprio per la sua eccentricità, per il rifuggire dagli schemi tradizionali, per quella oggettiva superiorità intellettuale e morale che fece di lui –ancora non noto a livello nazionale, cattolico in terra rossa- il candidato naturale alla guida del CLN di Reggio Emilia nel 1944.

La presenza dei cattolici nella Resistenza fu sicuramente inferiore a quella di altre forze politiche, in particolare i comunisti, ma non per questo priva di significato. In qualche misura l’esperienza resistenziale fu importante per i cattolici in quanto rappresentava insieme una testimonianza ed una forma di riscatto. Testimonianza perché mostrava in termini plastici la volontà di molti credenti di fare dell’amore cristiano una forza attiva all’interno della società, capace  di costruire un mondo nuovo oltre la suggestione della violenza nazifascista e del totalitarismo comunista. Ma anche riscatto, poiché era evidente a molti che il comportamento della Gerarchia nei confronti del fascismo – al di là del gelo crescente nell’ultima fase del pontificato di Pio XI – era stato marcato da una sostanziale adesione ad un regime che veniva interpretato come autentico baluardo nella difesa degli interessi ecclesiastici. Più oltre andavano certi ambienti intellettuali, legati al fondatore dell’UC Agostino Gemelli, che nel fascismo vedevano l’incarnazione secolare dell’ideologia della “regalità di Cristo”: in qualche modo, cioè, essi interpretavano Mussolini come un novello Costantino o Carlomagno, l’autocrate cristiano che traeva la sua legittimità dalla benedizione della Chiesa. Era, al fondo, il vecchio sogno teocratico che all’atto della fondazione del PPI aveva determinato la rottura fra Gemelli e Sturzo, il quale era fin troppo consapevole della complessità della società industriale ormai incipiente per potersi abbandonare a questi sogni corporativi. Ma proprio la condizione di minoranza di questo pensiero democratico aveva imposto ai cattolici, subito dopo la caduta del fascismo e la progressiva liberazione della Penisola, di recuperare affannosamente il tempo perduto, scontando da un lato una buona dose di immaturità e dall’altro il perdurare di una mentalità gerarchica ed autoritaria che mal si conciliava con la necessità di imparare la grammatica della democrazia.

Particolarmente fervido in quegli anni era il dibattito culturale, in cui si affacciava una figura che nel resto dell’Europa cristiana era ormai ritenuta centrale: Jaques Maritain. Intento principale del pensatore francese era quello di spostare i paletti della riflessione filosofica dei cattolici: se i neo-scolastici si erano generalmente limitati a riproporre in termini statici il pensiero di San Tommaso d’Aquino in forma di sistema compiuto, Maritain, indubbiamente influenzato dal pensiero esistenzialista, accentuò la riflessione sulla centralità della persona umana nella creazione e sul suo ruolo sociale. Egli mirava a far sì che l’uomo moderno potesse recuperare l’integralità della sua dimensione personale, affinché l’etica predatoria ed egoistica fosse convertita dall’etica della donazione e della solidarietà. L’operazione compiuta da Maritain fu notevole in quanto, senza proporsi in prima istanza fini politici, egli collocò naturalmente il tema dell’ispirazione cristiana in politica in una nuova cornice, da un lato ancorandola in termini inequivocabili ai principi democratici, dall’altro introducendo in termini ontologici la distinzione fra piano sovrannaturale e piano temporale. Il riferimento ai principi democratici assunse particolare importanza negli anni Trenta e Quaranta, a fronte delle tentazioni totalitarie che lambivano anche il mondo cattolico, ed in questo senso è importante (e complementare a quella di Maritain) l’opera di Emmanuel Mounier. Assai più giornalista ed animatore politico che filosofo, Mounier, dalle colonne della sua rivista “Esprit”, condusse una dura battaglia per la rivoluzione personalista contro i totalitarismi di destra e di sinistra, avvertendo nel frattempo la falsità della proposta “centrista” del cattolicesimo borghese.

Eppure Dossetti ed i suoi amici entrano alla Costituente sapendo ben poco di questo dibattito, e assumono una funzione di magistero basandosi quasi unicamente sulle proprie forze intellettuali, filtrando alla luce della necessità di creare l’ architettura di uno Stato democratico di tipo nuovo una fede religiosa profonda ma non integrista. Lo stesso Dossetti nell’ intervista citata dimostra di guardare senza particolari illusioni e nostalgie retrospettive al periodo costituente, ricordando come vi fosse una sostanziale diffidenza fra i vertici dei due maggiori partiti (DC e PCI) circa le caratteristiche da attribuire agli organi dello Stato, facendo in modo che prevalessero preoccupazioni garantistiche rispetto a quelle di funzionalità, proprio per evitare che in un contesto presidenziale o di cancellierato una parte potesse avere il sopravvento sull’ altra in termini paradittatoriali.

Per questo, ricostruendo quel periodo Dossetti afferma che lo sforzo principale suo e dei suoi amici è stato quello di creare un quadro valoriale condiviso, lasciando a personalità di carattere più giuridico – pratico (come Tosato o Mortati) le discussioni sulla concreta architettura dello Stato e delle sue articolazioni. In questo senso la rivendicazione che negli ultimi anni della sua vita Dossetti fece della perenne validità dell’ ispirazione di fondo della Costituzione è da inquadrare nel contesto di allora, ossia nella difficoltà di mettere insieme intorno ad un quadro valoriale condiviso persone che venivano da ispirazioni diverse avendo intorno un Paese che vent’ anni di fascismo avevano politicamente diseducato. A confessare questa difficoltà fu l’ ideale interlocutore di Dossetti in Costituente, ossia Palmiro Togliatti, che nella seduta del 9 settembre 1946 dichiarò “che fra lui e Dossetti c’è difficoltà nel definire la persona umana, ma non nell’ indicare lo sviluppo ampio e libero di questa come fine della democrazia”. E ciò in risposta ad un’ importante affermazione di Dossetti, che aveva chiesto ai suoi interlocutori di “affermare l’ anteriorità della persona di fronte allo Stato”, presentandola come “principio antifascista o afascista”, ma sapendo di andare a toccare un nervo scoperto anche per i marxisti più ortodossi. Eppure, proprio da questo dibattito nasceranno gli articoli 2 e 3 della Carta repubblicana che chiaramente definiscono la persona umana e le società naturali da essa fondate come antecedenti allo Stato.

Dossetti seppe anche cogliere con lucidità le esigenze che derivavano dalle situazioni oggettive che gli si presentavano, e se ne fece carico anche senza “naturale” o precedente convinzione. Non si spiegherebbe altrimenti il ruolo delicato che egli esercitò nella questione dell’ articolo 7, ossia del rapporto fra la nuova Costituzione e i Patti lateranensi sottoscritti da Mussolini e dal card. Gasparri in una situazione politica tanto differente. In questa circostanza Dossetti, e con lui De Gasperi, dovettero prendere atto dell’ impossibilità pratica di modificare un testo oggettivamente incompatibile con i valori costituzionali quale era quello sottoscritto il 12 febbraio 1929 e incorporarlo tal quale fatte salve (come disse Dossetti in Aula) auspicabili revisioni da avviare prima possibile. Era già molto comunque, ed anche qui funzionò l’ intesa operosa con un Togliatti determinato a non presentare il PCI come forza antireligiosa, definire lo Stato e la Chiesa come “indipendenti e sovrani ciascuno nel proprio ordine”. Anni dopo, nel 1955, Dossetti presentò al card. Giacomo Lercaro uno schema di riflessione in preparazione all’ assemblea dei cardinali italiani che in quel gennaio, a Pompei, avrebbe gettato le basi della CEI, affermando chiaramente come le garanzie giuridiche ottenute dal regime fascista e conservate nell’ articolo 7, in particolare in ordine al matrimonio, all’ educazione religiosa e agli enti ecclesiastici dovessero essere sostituite da una decisa azione pastorale della Chiesa. Un tale avvertimento, nell’ epoca in cui ancora si celebravano quelli che Mario Rossi avrebbe definito “i giorni dell’ onnipotenza”, era a dir poco profetico, e lo si sarebbe visto con chiarezza nel 1974 quando la gerarchia ecclesiastica tentò vanamente di difendere un vincolo giuridico che nella coscienza degli Italiani era già in crisi da tempo.

Dunque il Dossetti che dal 1994 fino alla sua morte nel dicembre di due anni dopo scende in campo per difendere la Costituzione non è un conservatore malmostoso o un visionario rimasto ancorato ai sogni del passato, ma un lucido intellettuale che è passato attraverso le tempeste del XX secolo e della Costituzione. Anzi,  prima ancora  nella ricerca costituente che ne è stata il fondamento e che non sarebbe stata possibile se gli uomini di buona volontà delle diverse sponde non avessero a tal fine collaborato, individua la base di una convivenza civile possibile in un Paese a lungo lacerato da divisioni e da odi, e che alla sua origine aveva non un processo di unificazione ma la conquista territoriale di uno Stato da parte  di una Dinastia dalle tradizioni guerriere.

Fin dal famoso discorso in memoria di Lazzati nel maggio 1994 Dossetti non esita a vedere nella deriva berlusconiana non tanto un semplice elemento di discontinuità politica, ma l’ avvio di una fase di delegittimazione della storia repubblicana precedente e dei valori che ne erano alla base, sottoposti alla duplice corrosione di un revisionismo che spesso è ideologia restauratrice mal mascherata e di una logica di mercificazione della politica e della morale da cui sarebbero nate nuove e più gravi divisioni della coscienza civile. Se l’ attentato a Togliatti nel 1948, i disordini all’ epoca di Tambroni nel 1960, la strategia della tensione e la notte del terrorismo, culminata nella tragedia del dossettiano Moro, avevano potuto essere riassorbiti senza che la democrazia ne venisse irrimediabilmente vulnerata era stato perché era operante negli uomini che dirigevano all’ epoca le maggiori forze popolari la coscienza di un’ appartenenza comune, di un quadro valoriale condiviso, anche in una fase in cui la Costituzione era lungi dall’ essere pienamente applicata. La sistematica opera di distruzione del senso dello Stato, che è la cifra più evidente del berlusconismo, ha rischiato di distruggere o se non  altro di intaccare permanentemente tale quadro valoriale proprio perché alla base non aveva una memoria ma semmai la volontà  di cancellare la memoria. La seminagione  del qualunquismo – Dossetti lo aveva ben visto – non è rimasta priva di conseguenze.

Vi è un aspetto notturno della politica, dove al posto delle risposte campeggiano gli interrogativi. Vuoi perché Eli Wiesel ci ha insegnato che nessuna risposta può contenere la densità di un serio interrogativo, vuoi perché a questa attitudine semitica siamo sospinti dalla disperazione di una storia che finisce. Vuoi anche perché – come ci ha insegnato Machiavelli – nei momenti di difficoltà le repubbliche ritornano ai loro propri principi.

“Io non sono mica un uomo da canzonette”, diceva don Giuseppe di sé, e con il medesimo piglio ci comunicò a metà luglio del 1996 a Monte Sole: “Non ci sarà una seconda generazione di cattolici al potere”. Nessuno sconto, né tanto meno qualche stentato remake. E infatti Dossetti pensava che quella che stiamo tuttora attraversando fosse crisi paretiana, di culture e personale politico, non di regole. Per questo sempre scomodo. E a spigoli netti. Poi uno si chiede perché mai e per chi sia scomodo Dossetti. Diciamo subito una cosa: senza Dossetti (e senza De Gasperi) il popolarismo sarebbe stato minoranza in questo Paese. E invece è risultato, dal dopoguerra, l’asse della politica italiana. L’attuale ripresa del clerico moderatismo è lì a testimoniare, a contrario, il vuoto lasciato dall’egemonia (non spaventi il termine gramsciano) del cattolicesimo democratico, meglio detto popolarismo.

L’omaggio a Dossetti (almeno postumo) è perciò obbligato. Omaggio all’assiduo lettore della Bibbia, al finissimo giurista, all’acuto politico.

Ricordo quando salimmo da lui per sbrogliare la matassa quando per le Acli era imminente il pieno e rinnovato riconoscimento ecclesiale.

Come definire l’organizzazione dei lavoratori cristiani? Ecco la risposta: “Una associazione di laici cristiani nota e non disconosciuta dalla Chiesa”. Il resto è Vangelo e la vostra libertà. Il di più viene dal maligno… La via del cristianesimo radicale, proprio per questo lontano da integralismi e fondamentalismi. “Non ci sarà una seconda generazione di cattolici al potere”. Voleva che i deputati si considerassero uomini con la valigia pronta, come in albergo, pronti a lasciare la valigia e anche l’albergo. Lui, assai più di De Gasperi, uomo di partito ostinato. Ostinato fin dai tempi della Repubblica di Monte Fiorino. Lui, presidente del CLN di Reggio Emilia. Mentre il giovane Achille Ardigò fungeva da staffetta, travestito – senza difficoltà – da bambino. Ostinato per la convinzione che il Signore non perdona gli ipocriti e che il primo dovere del cristiano è la coerenza.

Di partito si mostra fin dal 1945 quando, insieme a Fanfani, scende a Napoli a organizzare la Spes. Di partito, e, più che di partito, di corrente, se dobbiamo prestare fede alla testimonianza di Paolo Barbi.

Primo: impiantare a Napoli la corrente dossettiana. Primo: portare i giovani dall’ACI all’impegno politico. Uno sforzo che durerà intenso dal 1945 al 1951. Perché? Perché il cattolico non deve aver paura dello Stato. La società non vive senza organizzarsi nello Stato. E i cattolici non possono essere considerati l’ambulanza dei guai dello Stato, e dal canto suo lo Stato crei meno emarginati possibile.

Con Rossena 1 e Rossena 2, si sa, Dossetti lascia. Al centro di quel commiato la politica estera, come sempre. Al centro una Chiesa e un mondo cattolico considerati non pronti e non maturi. Al centro il partito. Che non deve essere un comitato elettorale. Un partito pensato in positivo, come partito per (partito programma), e non partito contro: anti-fascista, anti-comunista. Quel partito che deviò negli anni settanta,  si corruppe negli ottanta, crollò nei novanta…

Nel 1959 don Giuseppe De Luca, dopo un incontro con Dossetti, si lasciò sfuggire una frase per niente abituale sulle sue labbra: “Ho parlato con un santo”. Ricorda Giovanni Galloni: “Perfino alla vigilia del 18 aprile del 1948 pensava di non candidarsi, ma fu costretto”…

Al Congresso del 1946 risultò il quarto degli eletti. Ma ben presto il conflitto con De Gasperi non tardò ad esplodere. La miccia? De Gasperi non accettava il controllo del partito sul governo. Dossetti, infaticabile uomo di partito (e di corrente), organizza seminari con non più di trenta partecipanti. Tra i maestri Lazzati e don Gemellaro. Il maggio del 1947 vede l’uscita di Cronache Sociali.

Dossetti, dimessosi dalla segreteria, concentra le energie alla Costituente. E’ l’epifania dei professorini: il sodalizio con La Pira, Lazzati e Fanfani. Sul fronte avversario intrattiene un dialogo continuo con Togliatti. I frutti verranno intorno all’articolo 2 della Carta Costituzionale. Due relazioni: La Pira e Lelio Basso. Lo scontro non solo è inevitabile, ma perfino incandescente. Interviene Giuseppe Dossetti, e Togliatti: “dopo i chiarimenti di Dossetti siamo disposti a sostenere il testo dell’articolo proposto da La Pira”. Non c’è rimasta la versione integrale, ma solo il riassunto di quel discorso che dovette suonare davvero memorabile. Così come rosminiana deve considerarsi l’origine dell’articolo 2 medesimo: circostanza successivamente confermata da mons. Clemente Riva. Un Dossetti con qualche punta antiregionalista, e comunque diffidente, perché convinto che le riforme di struttura bisogna farle con strumenti accentrati e non decentrati. Con il serpeggiante timore che alle elezioni successive i comunisti potessero ottenere la maggioranza dei suffragi.

Dossetti, uomo di battaglia, che  non omette strumenti. Cronache Sociali si avvalgono della consulenza economica di Federico Caffe’, e, sempre con la consulenza di Caffe’, La Pira scrive il saggio sulle attese della povera gente. Il Keynesismo entra in Italia attraverso la soglia delle metafore evangeliche.

Arriva l’invito degasperiano a “mettersi alla stanga”. Ma nel contempo De Gasperi eleva Taviani alla vicesegreteria con il compito di “perseguitare” i dossettiani. Elkan commissaria la corrente dossettiana dell’Emilia. Moro viene commissariato a Bari. Finchè, a fronte del degrado del partito, De Gasperi accantona Taviani e rimette Dossetti – con Pella, e in accordo con Pella – alla vicesegreteria…

Si potrebbe continuare a lungo, di episodio in episodio, a ripercorrere le tappe di una collaborazione accidentata. Trotta lo fa con attenzione al respiro generale e assai meno ai giochi personali. Si potrebbe erigere un intero monumento all’incomprensione. Finchè a Rossena 2 Dossetti dimostra ai suoi che De Gasperi ha ragione e lui ha torto…Ci vuole una sinistra DC in grado di dialogare con De Gasperi. Nasce così la corrente di Iniziativa Democratica. Si codifica per Dossetti un’ennesima sconfitta. E’ Dossetti uno sconfitto? Indubbiamente sì. Lucidissimo e sconfitto. Al punto che, contro ogni hegelismo d’accatto, è logico ancora ripetere, come al congresso di Roma del PPI che vide l’avvicendamento tra Gerardo Bianco e Franco Marini: “Anche la storia può sbagliare”…

“Non ci sarà una seconda generazione di cattolici al potere”. Significa che l’esperienza della DC si dà una sola volta nella storia, e non si può ripetere. Soltanto in un orizzonte “rosminiano” è pensabile un’esperienza. Con al primo posto i principi e i diritti fondamentali dell’uomo e con implicita l’ispirazione cristiana. L’unità politica dei cattolici è andata in frantumi perché è venuta meno l’unità culturale. E se ci fosse, se si ripetesse, ci troverebbe esposti al rischio del fondamentalismo… Bisogna fare i conti con la dura profezia dossettiana. E ripartire da lì sulle tracce di una politica nuovamente motivata dalla ispirazione cristiana. Le sconfitte di Dossetti non hanno mai portato la politica in un vicolo cieco.

Quel che importa a Trotta  sottolineare è l’atipicità di Dossetti, tale, da impedire nonostante la frequenza della sequela, di parlare di dossettismo. Fin dagli esordi Dossetti è infatti voce fuori dal coro. Fin dalla peregrinazione del 1945 nelle province venete per impostare il problema istituzionale, “di cui non si poteva parlare perché avevamo il divieto di De Gasperi a parlare a favore della Repubblica. Io trovai una formula un po’ ipocrita  che consisteva nel dire le ragioni pro e contro, ma dirle così bene, che quelle contro alla monarchia finivano per fare più impressione. E quindi, nel Veneto, sparsi il seme repubblicano, in sordina, però efficacemente, e mi feci anche conoscere”.

Così pure nel comizio di chiusura  della campagna per l’elezione della Costituente  si presenta con  un programma  d’impostazione mirata e laica: l’affermazione di una repubblica democratica; una verticale trasformazione della struttura industriale; la riforma finanziaria; un’imposta straordinaria sui patrimoni; l’abolizione del latifondo; la nazionalizzazione delle grandi industrie monopolistiche. Impostazione che non metterà la sordina sui grandi temi  alla sua profonda convinzione cristiana che, nel contempo, nel confronto con avversari di rigore come Lelio Basso e Palmiro Togliatti, gli farà scegliere come livello di comune lavoro non la ricerca del compromesso ma l’incontro tra coscienze, dal momento che la fase costituente non gli appare come ricerca delle regole minime ma come patto di valori e ideali. Una impostazione anti-minimalista che gli consentirà di fare, già in allora, tabula rasa dei revisionismi pasticcioni già sulla soglia: “Non mi soffermerò a discutere se una costituzione debba avere un presupposto ideologico o meno; penso comunque che come tutte le costituzioni hanno avuto tale presupposto non è ammissibile che la nostra non l’abbia, e non sarà impossibile accordarsi   su una base  ideologica comune. A mio giudizio la Sottocommissione deve fissare i punti fondamentali della impostazione sistematica sulla quale dovrà basarsi la dichiarazione dei diritti, che non possono non essere comuni a tutti. ( … ) Venendo alla sostanza, cioè all’ideologia comune che dovrebbe essere affermata come base dell’orientamento sistematico della dichiarazione dei diritti, pongo una domanda: si vuole o non si vuole affermare un principio antifascista o afascista che non sia riconoscimento della tesi fascista della dipendenza del cittadino dallo Stato, ma affermi l’anteriorità della persona di fronte allo Stato?  Se così è , ecco che si viene a dare alla Costituzione una impostazione ideologica, ma di un’ideologia comune a tutti”.

E’ il testo del celebre ordine del giorno del 9 settembre 1946, quello che fissa  la precedenza della persona rispetto allo Stato. E si legga  al proposito sull’Enciclopedia Italiana  l’articolo alla voce Fascismo scritto da Giovanni Gentile e firmato da Benito Mussolini. L’ordine del giorno numero 2 fu fatto proprio da tutta l’assemblea e sancì la visione della Costituzione né come scontro né come scambio, ma come incontro.

Dal che conseguiva una visione della presenza dei cattolici ai lavori della Costituente non tesa a rivendicazioni di parte, non intesa a salvaguardare insulae di interessi corporativi, ma orientata al bene comune di tutta intera la società. Un contributo sapienziale che finiva non solo per escludere in radice l’esistenza di un tema più cattolico degli altri, ma anche per aggirare ogni prospettiva di Stato “minimo”.

Per Dossetti e i dossettiani, ma non solo per essi, la nuova Repubblica deve essere costituzionalmente garantita dalla Carta dei Diritti e da quello Stato Sociale che ne consente l’inveramento tra i cittadini in carne e ossa.

Dirà non a caso autobiograficamente il 17 marzo 1994 al clero della Diocesi di Pordenone: “Ho cercato la via di una democrazia reale, sostanziale, non di quella liberaldemocrazia di cui tutti, oggi, si sono fatti seguaci e realizzatori: con un nominalismo sempre più corroso di ogni sostanza fattiva, operante, concreta, reale e schietta, non ingannevole.  …  Ho cercato la via di una democrazia reale, sostanziale, non nominalistica: che voleva anzitutto cercare di mobilitare le energie profonde del nostro popolo, e cercare di indirizzarle in modo consapevole verso uno sviluppo democratico sostanziale,  cioè in larga misura favorente non solo una certa eguaglianza, una certa solidarietà, ma favorente soprattutto il popolo: non nel senso di solo oggetto dell’opera politica, ma di soggetto consapevole dell’azione politica”.

Perché non assumere queste espressioni, ad un tempo sincere e progettuali, come il testamento occasionale, ma anche spirituale e politico, di don Giuseppe Dossetti?


[1] Giuseppe TROTTA, Giuseppe Dossetti.La rivoluzione nello Stato,Camunia, Firenze, 1996

2 Mario TRONTI, Cenni di castella, Cadmo, Firenze, 2001, p.15

3 Mario TRONTI, op. cit. p. 19

4 Op. cit., p. 20

5 Erich FROMM, Avere o Essere?, Mondadori, Milano, 1979, p. 210

6 Op. cit., p. 209

7 Op. cit., p. 211

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