La battaglia per la preferenza

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Condivido la battaglia per la preferenza basata sull’osservazione che rispetto alla lontananza crescente tra cittadini e politica una legge elettorale, come quella che il governo ha in gestazione per il voto europeo, è la peggiore risposta possibile. Non esistono bibbie democratiche in proposito né manuali delle giovani marmotte, ma in questa difficile fase l’impossibilità per l’elettore di esprimere preferenze è  davvero la consegna della piena potestà di scelta degli eletti  non tanto ai partiti quanto ai loro vertici correntizi. E’ altrettanto vero che il PD “deve scegliere – e mi pare l’abbia fatto – tra i poteri dei cittadini e la prepotenza degli apparati”, come scrive “la Repubblica” del 13 settembre.

Si tratta cioè di recuperare un chiaro punto di vista, chiaro anche ai cittadini, perché la preferenza, in questa fase, si pone a spartiacque tra la Casta e la cittadinanza attiva.

Si era tanto parlato agli inizi di “legislatura costituente”. Dov’è finita? Come sempre le parole e le cose cambiano mentre viaggiano, e la politica se non fa passi avanti, ferma non sta, ma scivola all’indietro, come su montagna di sapone.

Il porcellum, voluto e votato dal centrodestra, ha finito col porre un fossato tra il ceto politico, che della politica professionalmente vive, e la quotidianità degli italiani. Credo che vizi abbondanti e logiche deleterie abbiano preso corpo anche in vasti settori della società civile, che nei confronti della Casta e dei suoi privilegi provano non di rado invidia, ma il ceto politico ha approfittato della circostanza per realizzare un vero e proprio arrocco. Le liste del 13 e 14 aprile sono state l’occasione e il festival di un filtro che è servito a destra e a sinistra passando per il centro.

Non serve studiare Pareto o richiamare il Gaetano Mosca delle élites: qui basta Konrad Lorenz. I vertici dei politici in carriera si comportano come i volatili e i mammiferi studiati in L’anello di Re Salomone. Presidiano il territorio e lo circoscrivono. Ne controllano implacabilmente gli accessi. Arrivando in alcuni casi al parassitismo di chi preferisce, non confessandolo, un territorio più piccolo perché più controllabile… Perfino la fisiologia del ricambio generazionale è stata piegata ad un uso distorto, nel senso che gli apparati hanno inventato una sorta di metempsicosi burocratica, per la quale l’anima e la logica del funzionariato o del notabilato trasmigrano da corpi e facce anziane in corpi e facce  di giovani funzionari o notabili, purchè omologati a quella natura e a quella logica…

La pandemia non ha risparmiato il PD. V’è anche da osservare che mentre a destra l’arrocco conserva e accresce il personale politico, a sinistra ne conserva una parte soltanto, diminuendone complessivamente la platea. E’ così che al partito esuberante di Orvieto che vuole andare libero e solo è succeduto un partito malinconico. Dal 15 aprile non stiamo facendo le stesse cose che abbiamo fatto fino al 14 aprile. E’ cambiato un sentimento diffuso ed è soprattutto cambiata la prassi. I democrats (e siamo davvero tanti e per nulla tentati di desistere) non sono malinconici perché sentono il partito lontano da loro, ma perché, come scrive Tonino Zaniboni, lo vedono lontano da se stesso.

Che sarebbe accaduto se il 13 e 14 aprile ci fossimo presentati, anziché applicare il porcellum secondo la lettera e lo spirito, con dei candidati scelti con le primarie? Non solo nel campo amico, ma anche dall’altra parte la possibilità della scelta degli elettori avrebbe creato interrogativi e spinte positive. Mancava il tempo… Non c’è mai tempo per provare l’innovazione che si  predica e per fare le cose nuove nelle quali crediamo. Ricordate il filosofo greco? “Dio? E’ un problema così complesso che non basta la vita a risolverlo. Quindi, parliamo d’altro…”

Così il rischio palese è che dal partito nuovo si scivoli verso un nuovo partito. Che l’interesse del ceto politico entri in conflitto con l’interesse del partito. Eppure il PD non nasce né da un libro né da un manifesto, bensì da un comportamento collettivo, le primarie, appunto, che fin qui han funzionato e, proprio per il fatto di stare in principio, costituiscono una sorta di mito fondativo, da non inflazionare, ma anche da non dimenticare o depotenziare. Il deposito iniziale è intatto.

Orbene, come diceva il Sindaco di Perugia al recente Convegno di studi delle Acli, la legge elettorale vigente è la più lontana dai territori e quindi dal federalismo, per cui non si vede la ragione di assomigliarle anche quella europea. Riaprire una battaglia per la rappresentanza neppure significa in questo caso opporre le ragioni dei proporzionalisti a quelle dei maggioritari: si tratta piuttosto di usare l’occasione per rilanciare la partecipazione dei cittadini. Né mi sembra casuale che a sottolineare l’opportunità sia il Sindaco di una città significativa: non viene comunemente riconosciuto come “primo cittadino”?

Dopo la diagnostica, due accenni al che fare.

Pare a me che l’azzeramento dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica obblighi a interrogarsi sui luoghi di selezione di un ceto politico, culturalmente attrezzato e professionalmente capace, in assenza del quale il Paese continuerà a segnare il passo. Come non pensare in primo luogo al duro tirocinio degli amministratori dei nostri enti locali? E’ la “via francese”, dal momento che nessun leader transalpino è arrivato a palazzo Matignon o all’Eliseo senza aver prima fatto il sindaco della propria città. Jacques Chirac riuscì addirittura a sommare per qualche tempo la carica di sindaco di Parigi con quella di presidente della Repubblica… Comunque una riserva di saperi e competenze alla quale attingere.

Infine i sindaci. Tutti ricordiamo il loro protagonismo movimentista di un decennio fa. Di alcuni è evidente la difficoltà d’uscire di scena alla fine di un mandato tanto faticosamente coinvolgente quanto umanamente gratificante. Nessuna mitologia. Ma è pur vero che intorno alla figura del sindaco, eletto direttamente dai suoi concittadini, si è andato concentrando in questi anni il massimo di consenso perché in questa figura viene percepito il massimo di rappresentanza del territorio. Consenso e rappresentanza si tengono, promuovendo un metodo elettorale che è vissuto dagli italiani come il più ricco di opportunità.

Perchè non prendere l’iniziativa a partire da esperienze che sono il nerbo di questo partito? Perché non coinvolgere nelle battaglie intorno al consenso chi del consenso fa esercizio quotidiano? E del resto il leader Walter Veltroni è tuttora fresco di tale esperienza… Nessuna esclusiva, ma il personale giusto per la battaglia giusta. Per coinvolgere tutto il partito e l’opinione pubblica che ci accompagna. Una operazione ad includendum, non per delimitare un territorio, ma per allargarlo.

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