Notarelle su il “post” che ci insegue

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Strada facendo sono aumentati i dubbi rispetto alle speranze, che restano vivaci. Il Paese si confronta con un rischio: la volontà di dominio si misura con le regole e intende cambiarle. Il governo Berlusconi si difende con il voto tra i denti dai “teoremi” dei giudici. Né di sola difesa si tratta.

L’attacco si muove sul confine che divide in Italia la democrazia costituzionale che conosciamo dalla post-democrazia che impariamo a traguardare. Qui si sono inceppati il dialogo voluto da Veltroni e il dialoghismo. Perché non si tratta di fair play: la democrazia parlamentare non si gioca a una porta sola. E dopo la democrazia parlamentare c’è la democrazia governativa.

Osserva Giuseppe D’Avanzo su “la Repubblica” di martedì 15 luglio: “Lo “Stato governativo” si definisce appunto per la qualità particolare che riconosce al comando concreto, “eseguibile e applicabile immediatamente”. Lo Stato governativo, scrive Carl Schmitt, “riconosce un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile. Qui vale il detto: “Il meglio al mondo è un comando”. Berlusconi chiede che il suo governo, sia suo davvero, chiuso nella sua volontà personale, affidato al suo comando di capo che governa, che dispone di tutti i requisiti della legittimità, della piena rappresentanza”.

Quel che nel linguaggio del mago di Arcore si dice il governo e lo Stato degli uomini del fare. Un suggerimento D’Avanzo propone: per leggere la circostanza ci vogliono gli occhiali di Schmitt, non quelli di Norberto Bobbio.


Due ipotesi attraversano visibilmente il Partito Democratico: quella di Veltroni e quella di D’Alema. Le due ipotesi sono in questo momento parallele e destinate a diventare alternative nel prossimo futuro.  C’è qualcuno in odore di “terza via”?


Ci vuole una spregiudicata diagnostica. I volontarismi lasciamoli al poi. La prima domanda è: a che punto siamo con la costruzione del PD? Come sempre, c’è dimezzo un “post”. E necessariamente il discorso rischia di farsi generico.

La nostra indagine deve confrontarsi con la fase post-elettorale. Una triste epifania, che ha messo in chiaro quanto il Paese sia da tempo cambiato. Berlusconi si è addirittura nascosto durante la campagna elettorale. Qui al Nord ha mandato in piazza i gazebo della Lega, con i leghisti che facevano sfoggio di anti-berlusconismo. Totalizzando maggioranza e opposizione.

Walter Veltroni, con una grande performance, ha condotto una travolgente campagna elettorale. Il figlio delle televisioni ha battuto il padre delle televisioni. Ma le urne hanno premiato alla grande il Cavaliere di Arcore.


Perché? Perché il fenomeno Berlusconi regge? Veltroni ha condotto la campagna come se invece di Berlusca ci fosse l’Innominato manzoniano. Berlusconi è salito sul predellino di un’automobile in piazza San Babila per fingere di fondare un partito. La sua è una vittoria strategica che discende da un posizionamento, non dalla creazione di una nuova forma del politico.

Si presenta il tema del destino della forma partito. Fine dei partiti di massa. Fine degli alberoniani partiti-chiese. Il partito personale (che Norberto Bobbio considerava una contraddizione in termini) si esibisce come l’esito esausto dei partiti di massa. Ma può anche essere letto come l’ultima metamorfosi della forma partito in crisi di sopravvivenza, per resistere alla minaccia di altri modi di organizzare il politico. Si stanno organizzando questi partiti intorno alle convenienze? Bastano le convenienze a legittimare e a far funzionare un partito?

Il PD ha risolto un grande e reale problema politologico. Ha semplificato il parlamento e la rappresentanza nel Paese. La disfatta della cosiddetta sinistra alternativa è l’altra faccia della medaglia di questa necessaria semplificazione.  Dunque il PD c’è, marcia con noi e ha dimostrato di funzionare. Peccato che a noi è toccato di scuotere l’albero, e il solito furbo s’è preso le mele…

La vittoria di Berlusconi non ha niente di politologico, ed è invece tutta politica. Il modello aziendale dilaga nella società. Non sempre risolve i problemi, ma è sicuramente vincente nella cattura del consenso. Partiti di plastica: sarà un caso che la plastica sia tra i materiali più presenti e più durevoli nella nostra vita quotidiana…

Il problema non risiede allora nella forma partito, dove la personalizzazione del potere, della leadership, dell’immagine surroga il declino della forma partito. A destra, al centro, a sinistra.

Mi ha detto con illuminante semplicità il Rappresentante nel nostro Paese del popolo Saharawj: “In tutto il mondo democratico cambiano gli uomini e restano i partiti. In Italia, cambiano i partiti e restano sempre gli stessi uomini”.  E’ la nostra ultima anomalia. O forse un altro “anticipo” italiano?


La Casta. La Casta è invidiata dai nostri concittadini per i privilegi di cui gode. Ma risulta insopportabile per la sua inutilità. Per questo non funzionano le soluzioni a livello politologico.

Veltroni e tutti i capi “romani” del PD (che comandano perché hanno il seguito dei pretoriani fedeli sul territorio) hanno scelto nella confezione delle liste elettorali la conservazione del ceto politico che c’è, con le sue logiche. Qualche accattivante variazione sul tema per ragioni pubblicitarie. Si è messo il vino nuovo in otri vecchi.

Conservare il ceto politico significa anche perpetuarne la logica attraverso un guidato cambio generazionale. Una sorta di metempsicosi. La tradizione diessina ha prolungato la logica tradizionale del funzionariato in corpi di giovani funzionari. Quella di matrice democristiana lo ha fatto nella figura del notabilato e simili. Così le liste hanno premiato gente non necessariamente dotata di consenso, non necessariamente nani e ballerine, ma caratterizzata da una fedeltà al capo da far invidia al costume medievale.

Le circoscrizioni del nord sono risultate colonizzate da questa logica, da tutti, ma proprio tutti praticata, non dall’assenza del federalismo. Prima che federale il personale politico deve essere dotato di autonomia e spina dorsale: capace di brillare di luce, magari fioca, ma propria.


Diagnosi

Per questo il discorso diagnostico sul PD non può andare disgiunto dall’attenzione ai sistemi elettorali. Il porcellum è stato votato dai nostri avversari, ma applicato dai nostri rappresentanti con malcelato entusiasmo, secondo la lettera e secondo lo spirito. E’ alle viste una modifica con riduzione delle preferenze per la legge elettorale europea. Qui, in questa materia non ci sono bibbie: c’è il kairòs della fase. E in questa fase tutto quel che si muove o è considerato muoversi contro la  scelta e la partecipazione dei cittadini è un salasso a un costume democratico già dissanguato. Ingrossa sicuramente le schiere dei renitenti al voto.

C’è un dare e un avere, neppur pattuito, in questa partita: il nostro ceto politico si perpetua, mentre si riduce; quello dell’avversario si perpetua, vince e  si allarga.

Il destino non è né cinico né baro. Capire è bello, anche se non sempre consolante. Che Berlusconi faccia il pieno dei consensi, non solo al Sud, drenando anche voti non raccomandabili. Che dica in campagna elettorale che il mafioso Mangano deve essere considerato un eroe grazie alla sua omertà, fa parte del conto. La destra conservatrice conserva. Il democratico conservatore e il cattolico perbenista chiudono un occhio, magari si rifanno allo schema dei vizi privati e delle pubbliche virtù. Lo fa il “Corriere della Sera” e lo ha rammentato in un’intervista il cardinale Camillo Ruini.

Sono i riformisti che devono esercitare una riserva critica nei confronti dell’esistente. Riformare, tutto sommato, vuole ancora dire cercare di cambiare le cose, perché così come sono non ci piacciono e, si spera, non dovrebbero piacere neppure ai nostri concittadini.


 E’ a questo punto che si levano grida di dolore per il destino dei cattolici italiani nello spazio pubblico. Credo che i risultati delle urne di aprile dicano che anche in Italia si è chiusa una fase della questione cattolica. E’ un lascito conciliare. Anche il cattolicesimo italiano non è più una categoria partitica e neppure, forse, una categoria politica. Si è cercato di prolungarne l’agonia con una reincarnazione riduttiva ed etica. Le piazze, i referendum, le liste ricalcate sulla biopolitica. E non deve fare meraviglia se ad agitarsi di più sono esponenti dell’ateismo devoto. (Del resto la lista capitanata da Giuliano Ferrara ha raccolto lo 0,3% dei suffragi). Ebbene, le urne hanno drasticamente deluso quanti avevano scommesso su queste campagne mediatiche. Gli italiani hanno votato il 13 e 14 aprile guardando alle proprie paure e alle tasse.


E nel Partito? L’assemblea alla Fiera di Roma di giugno ha detto che esistono le correnti al posto del partito. Ultima espressione di una partitocrazia senza partiti. Le correnti e i caminetti che le governano e ne compensano gli interessi. Sappiamo tutti che le correnti possono costituire la fisiologia di un grande partito in buona salute culturale e organizzativamente funzionante. Ma non di questo stiamo parlando. Solo il candore autentico di Paola Binetti la spinge a scrivere su “Europa” che soltanto nella corrente si può agevolmente discutere senza un eccesso di precomprensioni, mentre nel partito ogni dialogo risulta più faticoso… La verità è che queste correnti non paiono ordinate alla costruzione del partito, ma a ripararsi da eventualità ritenute spiacevoli e penalizzanti. Ragione per la quale pare di poter dire che nel PD oramai una fondazione non la si nega a nessuno…

Due principi vi presiedono: il principio della “tribù”, e il principio della “trincea”. Sulla tribù tradizione ed intuizione consentono di non spendere parole. Stupisce se mai che le tribù si siano attestate su consorterie ed affinità che sono precedenti rispetto alle affinità esibite nelle primarie.

Sulle trincee il discorso non è complicato. In mancanza di un progetto mobilitante verso un futuro strategico, il ceto politico si mette al riparo. S’imbuca. Di tanto in tanto i capi vengono a riferire quel di cui si discute al quartier generale e in riparati caminetti. Grande rispetto per il generale Estate, per il generale Autunno e per il generale Inverno. A primavera si vedrà. Siamo a Kutuzov e al Cadorna.

Ma così non si dura a lungo. La politica esiste. Se non vai avanti, non stai fermo, ma torni indietro. Il rischio di dissoluzione va messo nel conto. Le forze politiche non sopportano a lungo gli stati depressivi. Le truppe tenute in caserma fanno solo casino.


Come muoverci? Dopo la diagnostica senza complimenti, e soltanto dopo, deve intervenire la volontà, perché nulla è scritto in cielo. Devono intervenire l’immaginazione, le idee, la speranza e perfino il volontarismo. Senza sprecare giaculatorie.


Ripartire dai territori non basta, e soprattutto non ti assicura nessuna vittoria. Bisogna ripartire dalle culture. Chi viene dal nulla viaggia verso il nulla. Finiamola di scambiare le retoriche con il pensiero, i becchini con le levatrici. Un discorso da fare in casa.

Continuo a considerare i giorni e le notti della cucina delle candidature al parlamento come un crinale. Perché? Perché in quell’occasione tutti i filoni e tutte le tribù hanno operato una omologazione e una convergenza verso il basso. Diversi i pronunciamenti, uguali i comportamenti. E in politica sono i comportamenti che fanno le differenze, quando ci sono. Anche qui, triste epifania. Anche in casa nostra, all’ombra del campanile, muovendoci in una laicità matura…

Quelli che… hanno così affinato il proprio servizio di alto fuzionariato weberiano da aver irrimediabilmente lasciato alle spalle ogni parvenza, anche residuale, di identità culturale, fino a rendere problematico ogni tentativo di identificazione: sarebbe come esaltare il sapore regionale della cucina internazionale.  Quelli che… invece non cessano di esibire con strepito mediatico la propria cattolicità, o moderata o radicale, salvo appunto convenire ed omologarsi nei comportamenti. Qui s’è aperta, per tutti, una sfida non rinviabile. E’ finita la “politica cattolica”. E non a caso falliscono i tentativi di ridurla sul piano delle etiche gridate, come se il Vangelo patisse d’essere considerato alla stregua di un manuale delle morali.

Lo stare in politica da credenti implica piuttosto uno “stile”. Il primo ad intuirlo fu il solito Dossetti. Rileggersi l’introduzione a Le querce di Monte Sole (Pentecoste 1986). Adesso ci sono i primi rudimenti teologici a disposizione e Camaldoli ha già ospitato un seminario dei soliti solerti Dehoniani di Lorenzo Prezzi e Gianfranco Brunelli. Si è dunque aperta una pista di ricerca e di spiritualità. Una occasione di testimonianza, di esperienza comunitaria, con tutto quel che significa e comporta nei giorni e nella storia della Chiesa italiana, e di nuova elaborazione culturale. Mancano ancora garanzie sulle prospettive di carriera.

Ci sono infine tra di noi quelli che… con le quote dei cattolici salviamo una storia gloriosa e una tradizione. Peccato che il dio dei posti e delle tessere si sia stancato di fare miracoli.


Che fare?

È il solito interrogativo non disfattista, che in casa nostra ne richiama un altro: che cosa è vivo e che cosa è morto del cattolicesimo democratico? La domanda mantiene un sapore crociano, ma è probabilmente superata. Del resto, così a lungo è durata l’agonia in pubblico del popolarismo da indurci a pensare che una sua stagione sia finita.  L’interrogativo vero è un altro: quanti figli ha disseminato per il mondo il cattolicesimo democratico?

Tentare una risposta pratica ci obbliga a due operazioni.

La prima ci induce a rifare il punto della situazione. Dunque, le elezioni di metà aprile, la triste epifania, ci hanno messo brutalmente sotto gli occhi una serie di cambiamenti profondi che da tempo avevano attraversato il nostro Paese. E Berlusconi ha vinto prima nella società che nelle urne.

Troppo assente dalla nostra campagna elettorale il quadro della globalizzazione. Tremonti è stato più tempestivo nel prendere atto della metamorfosi, e per questo più pericoloso. Il suo colbertismo, chiaramente venato di euroscetticismo, è il vettore di un approccio alla nuova fase della globalizzazione che vede il suo ricentraggio sugli Stati Nazione, perché è ancora lo Stato del Seicento lo strumento più efficace per un ritorno della politica.

Nel Partito Democratico esistono più le correnti del partito: le correnti al posto del partito. E’ possibile servirsene costruttivamente?  Può esserne mutato il DNA, il senso e la direzione?

Mi pare comunque certo che dal 15 aprile stiamo facendo sotto il simbolo del PD cose diverse rispetto a quelle che facevamo prima del 15 aprile. Non è un problema di intenzioni. O almeno non è soltanto un problema di intenzioni. E non è vero, come cantava il ritornello, che “non c’è più niente da fare”.


Cosa resta da fare? Come ci possiamo impegnare? Qual’è il dovere dell’ora del cattolicesimo democratico?

Non credo possa fare partito per sé. Finita la “politica cattolica”, il meticciato, oltre che un’occasione, è una necessità. Con un’ovvia avvertenza: meticcio è ciò che nasce dall’incontro intimo e appassionato di due persone e due culture, generalmente una bianca ed una nera, o anche, per la particolarità della politica, una bianca ed una rossa… I genitori, senza dei quali il pargolo caffè-e-latte non potrebbe venire al mondo, amano il piccolo meticcio e con tempo, gioia e fatica un poco meticciano alla lor volta… E’ anche il senso della nostra riflessione.

L’incontro ha ovviamente bisogno di interlocutori: un problema dunque di scelta. Ha bisogno di un supporto organizzativo: e qui può funzionare la rete “confuciana” di Tonino Zaniboni da Mantova. Ha bisogno di una grande igiene mentale. Mi spiego: quando due tradizioni culturali si incontrano devono avere l’avvertenza di misurare insieme distanze e vicinanze.

Il dibattito dei nostri maggiori esponenti si è molto esercitato  nei mesi recenti nella misurazione ad alta voce delle sole distanze. Con risultati non soddisfacenti. No ai Radicali; e i radicali sono entrati nelle liste del PD, non aggiungendo voti, facendoci criticare dagli editoriali di “Famiglia Cristiana”, ed accrescendo senza prospettive di avanzamento i nostri problemi con l’area cattolica. Ho il dubbio che continuando le bocce a muoversi in questa maniera otterremo lo stesso risultato per la collocazione ideologica internazionale tra le famiglie politiche europee. Nessuno ha la soluzione in tasca. E quindi sarebbe altrettanto bene che nessuno lasciasse credere d’avercela.

Se dobbiamo assegnare alla vicenda tutto il vasto respiro e il volo che merita, mi sento di dire che siamo ancora sul crinale che divide ed accosta cristianesimo ed illuminismo. Le correnti progressive della Dc e le Acli da una parte; Del Noce e Comunione e Liberazione dall’altra. E’ il tema intorno al quale rifletteva Kant. “Adesso –sibila Fabio Mussi – se ne occupano Rutelli e Fassino”.  Insomma, la materia non manca.

Come non mancano i filoni tuttora vitali da esplorare all’interno della nostra vicenda storica. Penso a “quella specie di laburismo cristiano” che Saba ha avuto il merito, non soltanto storiografico, di riscoprire e proporre. All’inizio una citazione positiva di De Gasperi. E poi la contrastata vicenda di Dossetti, Romani, Pastore. Per arrivare ad Ermanno Gorrieri, passando probabilmente per un Vanoni tutto da riscoprire.

E poi tutte le nuove problematiche, biopolitica inclusa. Ma le cose che sono da fare chiedono curiosità e scelte al posto di elenchi della spesa. Senza dimenticare l’esortazione maritainiana a tenere insieme scienza e saggezza. Senza imitare il filosofo greco: “Dio? E’ un problema così complesso che non basta la vita a risolverlo: quindi parliamo d’altro”.

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