Luciano Gallino. Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità.

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Corso di formazione alla politicaGallino è implacabile nel rilevare come la diffusione del lavoro flessibile abbia avuto origine da precise scelte di ordine politico ed economico ed abbia prodotto a sua volta delle ricadute di ordine politico ed economico che hanno di fatto realizzato gli obiettivi che si erano prefissi coloro i quali hanno teorizzato e diffuso il modello del lavoro flessibile. In questo senso, alla base di tutto, c’è l’idea della possibilità di pianificare l’utilizzo del lavoro umano come quello delle altre voci del bilancio d’azienda, di fatto riducendolo a merce (che è esattamente quanto i testi internazionali e quelli nazionali, a partire dalla Costituzione repubblicana, raccomandano di non fare), ampliandone la domanda nei momenti in cui cresce la domanda del prodotto finito e diminuendola nel momento in cui la domanda decresce.

Luciano Gallino. Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità.

1. leggi il testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani

2. leggi la trascrizione della relazione di Luciano Gallino

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introduzione di Lorenzo Gaiani (25’30”) – relazione di Luciano Gallino (49’34”) – prima serie di domande (17’21”) – risposte di Luciano Gallino (26’13”) – interruzione di Massimo Lippi, pittore e poeta (8’48”) – seconda serie di domande, con interventi di Bianchi e Gaiani (33’58”) – risposte di Luciano Gallino (26’26”)

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Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Luciano Gallino

Ripensare la centralità del lavoro. – Note su “il lavoro non è una merce” di Luciano Gallino

1.     E’ difficile sfuggire alla sensazione che la gravissima crisi economica, sociale, produttiva ed occupazionale attualmente in corso abbia avuto, fra i tanti spiacevoli aspetti collaterali, anche quello di produrre quella particolare categoria di persone che sono i profeti del giorno dopo. Si tratta di quel tipo di analisti, di vati del giornalismo, di politici più o meno ispirati che sono abilissimi nel decifrare a posteriori le cause di qualche evento che erano ben lungi dall’aver previsto quando sarebbe stato il momento, e che anzi prima che si verificasse avevano rifiutato con tutta la loro forza anche solo di ipotizzare, onde potersi accodare con animo tranquillo alla generale tendenza al conformismo. Naturalmente c’è chi queste cose le sa dire con una certa eleganza, ed in questo senso un maestro è il nostro attuale Ministro dell’Economia, il quale, dall’alto del suo infinito disprezzo intellettuale per la maggior parte dell’umanità, va magnificando ormai da mesi le sue doti di preveggenza, per quanto in realtà al momento in cui il suo aureo libretto vide la luce tutti gli indicatori economici stavano precipitando, e quindi la previsione non era sulla crisi in sé ma sulla sua ampiezza e sulle conseguenze che avrebbe implicato per Stati e persone. Inoltre, il problema non è tanto quello delle previsioni in sé, quanto delle contromisure proposte: ma di questo parleremo più avanti.

2.     Luciano Gallino non ama invece atteggiarsi a profeta, ma è un dato di fatto che pochi altri intellettuali italiani si siano misurati come lui nel corso degli ultimi dieci anni nell’analisi della cause e concause dell’attuale tsunami economico e finanziario, dalle questioni dell’occupazione a quelle del nanismo imprenditoriale del nostro Paese, alla rinuncia sistematica ad investire in termini di ricerca e sviluppo, alla crescita esponenziale delle diseguaglianze in tempo di globalizzazione, fino ai miracoli al contrario della finanza creativa e virtuale, cui è dedicato l’ultimo libro apparso pochi giorni fa per i tipi di Einaudi, e per  il quale ovviamente fin da subito prenotiamo l’Autore per la prossima volta. Il testo che esaminiamo oggi, invece, risale allo scorso anno, e rappresenta una sorta di ricapitolazione di quanto Gallino è andato scrivendo nel corso di questi anni, in libri, articoli e conferenze, sulle tematiche occupazionali, che rappresentano da sempre una delle sue maggiori preoccupazioni di studioso e, credo di poter dire, anche di cittadino cresciuto ad una scuola importante come quella di Adriano Olivetti, che aveva ben chiaro come la disoccupazione involontaria fosse una delle massime disgrazie che può capitare ad un essere umano. Il titolo del libro, Il lavoro non è una merce, riproduce alla lettera uno dei passaggi salienti della “Dichiarazione di Filadelfia” del 1944 dell’ Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), la quale è un ente collegato alle Nazioni Unite e non una sorta di internazionale sindacale, e che più volte nel corso degli ultimi sessant’anni ha rimarcato come il progressivo deteriorarsi a scapito dei lavoratori dei rapporti di forza nella eterna dialettica fra capitale e lavoro non producesse nulla di buono in termini di giustizia sociale o, più semplicemente, di potere d’acquisto dei lavoratori stessi. Anche qui, Gallino ci ricorda che si tratta di fenomeni che si sono svolti interamente sotto i nostri occhi da almeno trentacinque anni a questa parte, dallo choc petrolifero del 1973, che rivelò la fragilità delle basi del sistema capitalistico occidentale e convinse imprenditori, economisti e politici della necessità di ristrutturare il sistema riportando i piatti della bilancia, che il trentennio keynesiano e socialdemocratico aveva almeno in parte spostato a favore dei lavoratori, più dalla parte del capitale. In effetti, una delle conseguenze sgradevoli dell’attuale crisi economica e sociale è l’assistere alle palinodie, ai mea culpa tardivi di quanti nel corso degli anni hanno sostenuto le verità ufficiali, conformandosi da destra e da sinistra ai dettami della moda, e che adesso all’improvviso scoprono che la lotta di classe non è affatto morta, ma anzi va avanti gagliardamente, solo che le classi più deboli hanno incassato da anni diverse sconfitte e, quel che è peggio, hanno perso gli strumenti per tentare il riscatto.

3.     Gallino è implacabile nel rilevare come la diffusione del lavoro flessibile abbia avuto origine da precise scelte di ordine politico ed economico ed abbia prodotto a sua volta delle ricadute di ordine politico ed economico che hanno di fatto realizzato gli obiettivi che si erano prefissi coloro i quali hanno teorizzato e diffuso il modello del lavoro flessibile. In questo senso, alla base di tutto, c’è l’idea della possibilità di pianificare l’utilizzo del lavoro umano come quello delle altre voci del bilancio d’azienda, di fatto riducendolo a merce (che è esattamente quanto i testi internazionali e quelli nazionali, a partire dalla Costituzione repubblicana, raccomandano di non fare), ampliandone la domanda nei momenti in cui cresce la domanda del prodotto finito e diminuendola nel momento in cui la domanda decresce. A ciò sono collegati altri fenomeni legati alla globalizzazione, che Gallino considera sostanzialmente come l’altro nome del capitalismo maturo in questa fase storica, determinata dal crollo del sistema comunista non solo come forma politica ma anche come ipotesi concreta di alternativa al sistema capitalistico nel suo complesso ed in tutte le sue forme. Uno di questi fenomeni, evidentemente, è la delocalizzazione del lavoro in quelle parti dell’ Europa e del mondo che, a differenza dell’ Italia e degli altri Paesi occidentali, non hanno né tradizioni sindacali né forme giuridiche di tutela del lavoro particolarmente avanzate, e rendono possibile quindi minimizzare il costo di quella particolare merce che è il lavoro umano, spesso con il sostegno attivo di Governi corrotti o interessati in modo spasmodico al raggiungimento di certi standard economici al punto di sacrificare sistematicamente gli interessi, la dignità e la salute dei loro cittadini per attirare gli agognati investimenti stranieri.

4.     Il fatto è, come Gallino dimostra con dovizia di dati, che il modello della flessibilità non produce vantaggi di sorta per i lavoratori né qui né altrove, e se vi sono dei vantaggi essi si collocano essenzialmente dalla parte dell’impresa, anche perché la flessibilità del lavoro si accompagna essenzialmente alla liquidazione dei sistemi di protezione sociale che erano collegati alle forme tradizionali dell’attività lavorativa, e che al fondo erano anch’essi il prodotto dell’azione congiunta delle lotte operaie condotte dai sindacati, delle forze politiche progressiste e del realismo di imprenditori che si rendevano conto della necessità di una sia pur minima forma di redistribuzione della ricchezza. Ora, che quel sistema fosse in crisi era abbastanza evidente: che la risposta consistesse unicamente nella sua liquidazione è perlomeno dubbio. Il fatto è che nella logica della globalizzazione tutto si tiene, e la destrutturazione del rapporto di lavoro tradizionale si accompagna necessariamente alla involuzione del diritto del lavoro e al sensibile mutamento dei rapporti di forza nella dialettica sociale. Quel che è peggio, le stesse forze di sinistra, almeno quelle interessate seriamente al problema del governo (la cosiddetta sinistra radicale sembra essere preda di una preoccupante dinamica involutiva) sembrano in qualche modo essere afasiche rispetto al processo in atto,  e spesso si candidano a gestire i processi necessitati dalla filosofia di fondo della globalizzazione teorizzando l’inesistenza della distinzione fra destra e sinistra. Ovviamente sul lungo periodo tale teoria giova essenzialmente a destra, al punto tale che nel nostro Paese la sinistra di governo è apparsa così squilibrata nella difesa delle ragioni del neoliberismo da venire scavalcata sul terreno “sociale” anche dalle ricette paternalistiche dell’ultimo Tremonti, che certo trovano il loro limite nella logica autoritaria e, grazie all’apporto della Lega Nord, sostanzialmente xenofoba che vi è alla base. Allo stesso tempo le parole di Tremonti riecheggiano da lontano alcune dimenticate parole d’ordine della sinistra che possono apparire credibili alle orecchie degli sconfitti della globalizzazione, di chi vede erodere sempre di più le proprie condizioni di benessere e trova credibile un discorso di ripiegamento e di demonizzazione dell’altro, del diverso, dello straniero. Scenari weimariani? No, più semplicemente la realistica constatazione del fatto che nell’assenza di un serio discorso comunitario e progressista si apre lo spazio per un discorso comunitario e reazionario, che non teme le contraddizioni, al punto tale che in una gita sulle Alpi comasche può capitare di vedere manifesti leghisti che stramaledicono i cementificatori  “della nostra terra” mentre i grandi capi concordano con Berlusconi un piano –casa che agli occhi di molti osservatori appare niente più che un condono anticipato delle cementificazioni a venire.

5.     Ci siamo forse un po’allontanati dal tema originario, ma se c’è una cosa che Gallino, da scienziato sociale, tende sempre a ricordare è che l’aspetto economico, quello politico e quello sociologico dei fenomeni sociali di vasta portata (e la globalizzazione, di cui la flessibilità del lavoro è un sottoprodotto,  è indubbiamente il fenomeno sociale di più vasta portata che il mondo abbia registrato dagli anni Ottanta del secolo scorso ad oggi) sono necessariamente interconnessi, e solo prendendo atto di tale interconnessione è possibile affrontarli. Il problema di fondo, come argomenta il nostro Autore, è che la logica della flessibilità, che si applica ai turni di lavoro, alla continuità del lavoro stesso, alla disciplina contrattuale, agli equilibri salariali, ed infine alla concreta quotidianità di vita delle persone, non mantiene nemmeno una delle promesse di miglior vita che i suoi ideologi sbandierano, anzi è l’esatto contrario. In primo luogo non c’è alcuna correlazione fra l’aumento della flessibilità e l’aumento dell’ occupazione: al contrario, come dimostra Gallino citando dal rapporto 2004 dell’ OCSE (una delle organizzazioni internazionali che con maggiore sistematicità si è applicata alla diffusione della flessibilità) viene messo in evidenza che non vi è alcun legame empirico fra il venir meno delle restrizioni al licenziamento (con provvedimenti che sono il cuore stesso della logica interna della flessibilità) e la crescita dell’occupazione. Al contrario, si è persino evidenziato che la diffusione di contratti di lavoro non a tempo indeterminato nelle varie forme che si sono viste anche nel nostro Paese tramite un’infelice serie di deroghe legislative allo Statuto dei lavoratori, non ha affatto influenze positive sulla dinamica produttiva, e ciò per il semplice motivo che la consapevolezza del prestatore d’opera di non avere la minima garanzia sulla continuità del proprio lavoro lo spinge a non avere particolari stimoli ad impegnarvisi al massimo. A ciò si aggiunga l’eterna diatriba in ordine alla credibilità e alla opinabilità dei metodi di rilevamento del dato dell’occupazione, che di fatto nel nostro Paese sottostimano la crescente diffusione del settore informale, ossia, in parole povere, del lavoro nero, come metodologia d’impiego che sfugge anche alle forme più complesse introdotte dalle varie riforme del mercato del lavoro. I continui proclami sull’”emersione” dal lavoro nero di qualche centinaio di persone significano semplicemente  che questa vera e propria vergogna nazionale sta continuamente prosperando, richiamando in modo strutturale la responsabilità sia dei mancati controlli da parte di Ispettorati del lavoro costantemente sotto organico e di una criminalità che proprio in questa zona grigia, ma volgente al nero , trova l’occasione per rafforzare i suoi interessi ed il suo controllo del territorio. Ma per questo basta sfogliare qualche pagina del noto libro – reportage di Roberto Saviano Gomorra.

6.     Un’altra conseguenza del diffondersi delle forme di flessibilità nel lavoro è stata quella della crescente precarizzazione della vita delle persone che tale flessibilità vivono quotidianamente. Infatti, la precarietà non si riferisce soltanto al fatto che il lavoro oggi c’è e domani forse, ma diventa una condizione esistenziale permanente soprattutto in un  contesto in cui, da un lato, le forme di vita tradizionali sono calibrate intorno al concetto di lavoro a tempo indeterminato, e dall’altro il deteriorarsi delle condizioni economiche e sociali tradizionali si traduce nell’incapacità per le persone di fare progetti, di proiettare la propria esistenza oltre la quotidianità, di dare conto di se stessi e di definire la propria identità di cittadini e di persone umane. In questo senso, Gallino rilegge a contrario il famoso documento del 1999 dell’ OIL Pour un travail decent (un lavoro “decente”, nemmeno un lavoro divertente, o ben pagato, no,  solo decente) dimostrando come il decalogo che tale documento veicolava si sia realizzato alla rovescia in tempi di flessibilità. Sicurezza dell’occupazione, scriveva l’OIL, ma anche sicurezza professionale, intesa come sviluppo della professionalità di ciascuno, sicurezza dei luoghi di lavoro, sicurezza del reddito come creazione e mantenimento di un reddito adeguato ai bisogni del lavoratore e della sua famiglia, la sicurezza di rappresentanza (vero nodo dolente, giacchè il sindacato stesso ha gravi difficoltà a rimodulare la propria azione nel momento in cui la rappresentanza viene polverizzata in una miriade di contratti individuali e la stessa contrattazione nazionale è oggetto di ben mirati attacchi politici ed ideologici) , sicurezza previdenziale …Ognuna di queste sicurezze è messa pesantemente in discussione dalla logica intrinseca della  flessibilità, e suona quale sguaiata derisione l’apologia che alcuni ideologi e propagandisti hanno voluto fare di tale condizione come di una maggiore gamma di opportunità rivolta soprattutto ai giovani perché in effetti, come evidenzia l’Autore, la somma dei lavori flessibili che un giovane può allineare in un neanche troppo immaginario curriculum vitae redatto intorno ai trent’anni farebbe scuotere la testa a qualunque direttore delle risorse umane di un’impresa seria.

7.     Non maggiore credito sembra concedere Gallino ai sostenitori di “vie medie”, per così dire, alla flessibilità, come quella definita della “flessicurezza” (flexicurity) che è il nome che si è convenuto di accordare alla concreta modalità di riforma del sistema di welfare in Danimarca da parte dei governi socialdemocratici degli anni Novanta. Come sempre, di fronte ad un rilevante fenomeno sociale, si può decidere se occuparsi delle cause o degli effetti, se operare su elementi transeunti o su quelli strutturali. La flessicurezza si qualifica, secondo il dettato della Commissione europea come “una strategia integrata per accrescere al tempo stesso flessibilità e sicurezza sul mercato del lavoro”, che mira ad anteporre la sicurezza dell’occupazione alla sicurezza del posto, ossia in sostanza l’essere sicuri del rapido reimpiego nel mondo del lavoro piuttosto che della stabilità nel posto in cui si è concretamente impiegati al momento.  Quali sono gli strumenti concreti della flessicurezza? Osservando il caso danese (ma in realtà i primi approcci in questo senso furono già esperiti in Olanda a partire dal 1999) si possono sintetizzare così: ampia libertà di licenziamento con altrettanto necessario ampio preavviso (che può variare da uno a sei mesi) , dispositivi di legge assegnare un lavoro a tempo indeterminato a chi abbia cumulato un dato periodo di lavoro interinale, assegni di disoccupazione relativamente generosi, obbligo del disoccupato a seguire corsi di formazione che ne migliorino la disposizione all’occupabilità, sanzioni per chi rifiuta i lavori offertigli dai servizi sociali …. Sono strumenti interessanti, anche se, rileva Gallino, un po’ condizionati dal pregiudizio generalmente attribuito alla destra per cui chi non lavoro è perché non ne ha voglia e deve quindi essere forzato a farlo. Più nel concreto, è da dubitare che i risultati reali degli accorgimenti della flessicurezza siano di natura tale da contrastare seriamente l’indice di disoccupazione danese, che in effetti è calato al 6% nel 2005, ma non scorporando da esso l’alto numero di prepensionati, le persone in formazione e quelle che fruiscono di congedi dal lavoro per qualsiasi motivo, si arriverebbe probabilmente, dice Gallino, ad una quota pari al doppio di quella dichiarata. Peraltro, la Danimarca e l’Olanda sono favorite in questo tipo di politiche sia dalle ridotte dimensioni del territorio e della popolazione rispetto ad altri Paesi dell’ UE –compreso il nostro- sia dalla presenza di solide istituzioni di welfare che permettono ad esempio la corresponsione di un’indennità di disoccupazione pari al 90% dello stipendio delle ultime 12 settimane di lavoro. L’applicazione al nostro Paese di simili meccanismi comporterebbe di fatto l’assunzione di nuovo personale pubblico destinato alle complesse operazione di ricollocazione e, soprattutto, implicherebbe una scelta concreta a favore di una politica di incremento della pressione fiscale che finanziasse un sistema assistenziale e previdenziale di tipo scandinavo che tutela realmente le persone, comprese le più deboli (a partire dai bambini e dagli anziani). La pressione fiscale nel nostro Paese (al netto di uno scandaloso dato di evasione di fatto tollerato se non incoraggiato dall’attuale Governo) ammonta oggi al 43% e a molti pare un’esosa ed inaudita spoliazione: in Danimarca supera il 50%, l’IVA grava sui consumi con un’aliquota unica del 25% e l’aliquota marginale dell’imposta sul reddito arriva al 63%. Le ingenti risorse che permettono di finanziare i percorsi di flessicurezza arrivano da qui: esiste una qualche forza politica italiana che si voglia fare carico di una tesi tanto impopolare? E, soprattutto, considerando che comunque i dati occupazionali – quelli effettivi, non quelli dichiarati-  anche in regime di flessicurezza tendono al negativo, non sarà che il sistema stesso della flessicurezza è una modalità per curare le conseguenze del problema tralasciandone le cause?

8.     Alla fine il problema dello Stato sociale è direttamente connesso a quello del lavoro. Non è un caso del resto che tanti Enti pubblici e tante realtà della società civile, comprese le organizzazioni ecclesiastiche, abbiano agito di slancio in favore delle persone che hanno perso o stanno perdendo il lavoro cercando di trovare modalità di integrazione di un reddito familiare cessante o decurtato. D’altro canto, al di là della lodevole e necessaria azione di questi soggetti, occorre dire che ciò che differenzia il nostro Paese rispetto ad altri sullo scenario europeo – pur in una crisi generale dei sistemi di welfare- è per l’appunto il fatto che la soluzione dei problemi connessi alla crisi economica è demandata agli interventi spesso scoordinati di soggetti fra loro distinti ovvero all’eterno ammortizzatore sociale italiano, la famiglia. Laddove invece chi avrebbe le maggiori responsabilità verso i cittadini, ossia lo Stato, sembra afasico essendo incapace sia di una seria politica industriale, sia di un’incisiva politica attiva per il lavoro sia di una ridefinizione degli strumenti di welfare che superi alcuni aspetti tradizionali ma non venga meno al principio generale dell’universalità delle prestazioni, della tutela diffusa, della disponibilità ad integrare chi viene dall’estero a lavorare anche nei meccanismi di protezione sociale (a quanto pare uno dei più noti detti di Confucio, ora riscoperto dall’ufficialità cinese dopo anni di ostracismo, recita che “il governo ideale è quello che fa felici i suoi cittadini e attira gente da Paesi stranieri”). Gallino conclude il suo libro con una serie di proposte finalizzate ad una nuova regolamentazione globale e nazionale del mercato del lavoro e dei diritti dei lavoratori che parta dall’assunto principale che “il lavoro non è una merce”, facendone conseguire una serie di comportamenti precisi, dal rifiuto di scambi fra lavoro e Stato sociale alla riaffermazione del contratto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato come figura contrattuale centrale ed unica, con pochissime eccezioni, con la penalizzazione dell’uso indiscriminato di lavoro irregolare. Naturalmente, riconosce Gallino, la questione di fondo è e rimane di natura politica, nel senso che per realizzarsi questo progetto presupporrebbe l’esistenza di soggetti politici capaci di dar voce all’esigenza di rendere economicamente sostenibile la rinuncia alla flessibilità come strumento di governo del mercato del lavoro. Rimane da capire se l’attenzione che le forze politiche dell’area democratica e progressista rivolgono con una certa intermittenza al mondo del lavoro le renda prima o poi capaci di togliersi il paraocchi liberista di questi ultimi anni per vedere la realtà della loro gente – quella che dovrebbero rappresentare- per quella che è. Forse a quel punto potrebbe coagularsi quella maggioranza d’opinione pubblica ancora inconsapevole che Gallino (e noi con lui) spera essere già in qualche modo esistente.

Trascrizione della relazione di Luciano Gallino

Ringrazio ancora una volta il dr. Gaiani per questa sua introduzione che mostra una dote e un impegno reale di quelli che scrivono sui libri, sui libri di altri, che commentano, criticano, valutano i libri di altri. Gaiani va a fondo, penetra con molto impegno, con molto acume nel vivo del libro e ne mette in luce i filoni importanti, gli assi portanti. Questa è la quarta o quinta recensione di miei libri, chiamiamola così, che scrive e mi farebbe molto piacere vederle pubblicate perché in generale le recensioni di cui sono oggetto i miei libri, tranne poche eccezioni, mostrano chiaramente come perfino i recensori favorevoli non abbiano letto il libro o ne abbiano letto soltanto una parte. Quindi, grazie, dr. Gaiani, e spero di poterle raccogliere in un volumetto per conto mio. Tendo a non leggere mai quello che ho scritto in passato, ma nei testi di Gaiani c’è una sintesi molto efficace.

Vorrei poi dire, prima di entrare nel merito dei temi toccati nel libro, che mi fa molto piacere essere qui con voi ancora una volta perché è ormai una delle rare occasioni  in cui, come intellettuale e come persona che scrive dei libri faticandoci sopra, ho l’impressione di non essere solo. Una volta non succedeva così perché avendo io scritto in generale, soprattutto negli ultimi 10-12 anni, dei libri che cercavano di non aderire alle mode, alle mode correnti, al consenso che fosse di Washington, di Roma o di Londra, o altro, ho ricevuto spesso molte attenzioni, recensioni o interventi anche di personaggi politici, perfino un primo ministro se la prese una volta con un mio articolo. Col passare del tempo ho visto subentrare una sostanziale indifferenza.

Potrei scrivere praticamente qualunque cosa, per esempio non so, che a fronte della crisi attuale le banche dovrebbero essere nazionalizzate, e non ricevo il minimo commento. Non è un fatto personale, il fatto è che la disattenzione, la possibilità di dire qualunque cosa senza in realtà richiamare nemmeno proteste, nemmeno critiche, è un segno sgradevole del declino del nostro paese e dell’attenzione critica, dello spirito critico o di quello che una volta si chiamava la teoria critica del sociale o della società. Hanno presa, e vengono discusse, soltanto idee convenzionali o pesantemente superficiali che non cercano di approfondire troppo al di sotto dell’apparenza le correnti, i torrenti carsici, quello che avviene sotto ciò che fa poi esperienza quotidiana per tutti noi.

Questo è molto evidente anche là dove lo spirito critico si dovrebbe formare, cioè nella scuola, e in particolare nell’università. Per quanto riguarda gli studiosi che si occupano di questi temi, il lavoro, l’economia, la finanza eccetera, nell’università direi che il 97-98% di economisti, di sociologi, di giuslavoristi, di persone che ci girano attorno, sono means stream, si lasciano portare dalla corrente, sono soddisfatti nel rappresentare parte della corrente e quelli che cercano di andare controcorrente non destano mai più nessun interesse. Il fatto che un buon numero di persone mostrano di aver qualche interesse su temi di questo genere mi conforta non solo sul piano personale. Grazie.

Cercando di toccare alcuni dei temi trattati nel libro e parlandone alla luce di quanto è accaduto negli ultimi dodici mesi, la crisi mondiale, detta crisi finanziaria ma si sa che è una pesante crisi dell’economia reale, quello che sta succedendo è che la crisi sta peggiorando fortemente la situazione dei lavoratori in tutto il mondo, nei paesi avanzati, nei paesi sviluppati come il nostro e in molti paesi emergenti.

In Cina, ad esempio, negli ultimi vent’anni circa 300 milioni di persone hanno lasciato le campagne per affluire nelle città dove venivano occupate prevalentemente nelle costruzioni e nei servizi. Dall’inizio della crisi, e cioè da un anno o poco più, circa la metà di questi 300 milioni di persone hanno perso il lavoro e stanno tornando alle campagne dove il lavoro d’un tempo, povero, modesto, contadino, premoderno, tutto quello che si vuole, però esisteva. Adesso non esiste più perché le campagne sono state comunque ristrutturate, modernizzate, espropriate, trasformate in cantieri e molte altre cose del genere.

E la situazione è gravissima in Africa, è grave in Russia, in Brasile, in Argentina, è gravissima negli Stati Uniti. Quindi vi sarebbe bisogno come non mai di politiche del lavoro globali, politiche del lavoro non solo internazionali ma che avessero una prospettiva globale, non soltanto perché, come ormai anche i ragazzini delle medie ripetono, il problema è globale quindi la soluzione deve essere globale, ma perché la globalizzazione, quel processo in corso da moltissimi anni ma che ha avuto una forte accelerazione a partire degli anni ’80 – quindi sta compiendo più o meno una trentina d’anni – il processo di globalizzazione è stato in primo luogo una gigantesca forma di politica del lavoro o di politiche del lavoro, al plurale.

Questo vuol dire che sul piano internazionale, quando il G7, il G8, il G20 o il G42 come qualcuno propone fa le sue riunioni, è di lì che si dovrebbe partire, ma anche una politica nazionale del lavoro, la politica italiana, un qualche tentativo di far sì che una situazione già seria non diventi drammaticamente seria per via della crisi – questo non vuol dire i prossimi tre mesi ma i prossimi 2, 3 o forse 5 anni – dovrebbe partire dall’analisi di questo processo.

Processo che è consistito prevalentemente nell’andare a sistemare l’attività produttiva, a collocare o a localizzare l’attività produttiva là dove i salari sono molto più bassi, gli orari di lavoro non hanno quasi limiti (le 60-70 ore sono la norma); i sindacati non esistono o sono soltanto dei paraventi del governo, come in Cina o in altri paesi; non esistono vincoli ambientali; la fiscalità è estremamente favorevole a imprese che vengono dall’esterno a insediarsi in un dato paese emergente; i diritti del lavoro esistono sulla carta ma sono praticamente inapplicati; fare il sindacalista è un mestiere molto pericoloso (soltanto tra Colombia e Bolivia si contano negli ultimi 2-3 anni 250 sindacalisti uccisi). In sostanza, la situazione del lavoro ricorda quella della Rivoluzione industriale di 150 anni fa e più.

Bisogna fare delle distinzioni. Tutto nasce con i cosiddetti investimenti diretti all’estero, migliaia e miliardi di dollari che vengono investiti dagli Stati Uniti, ma anche dall’Unione Europea in paesi emergenti, prima soprattutto la Cina, poi anche l’India e molti altri paesi minori, la Thailandia, l’Indonesia, la Malesia, e moltissimi altri paesi che per vari aspetti poi ne hanno tratto vantaggio.

Gli investimenti diretti all’estero vanno però divisi in due: vi sono investimenti diretti a costruire, a far nascere delle fabbriche, degli uffici, delle unità produttive che sono intese a conquistare, a espandersi sul mercato locale, mentre altri investimenti diretti all’estero, che sono grosso modo due terzi rispetto a un terzo, hanno la funzione di produrre, in condizioni lavorative e in condizioni di organizzazione del lavoro, a fronte di condizioni del lavoro che sono quelle di un secolo e mezzo fa in Europa, merci che poi per più di due terzi vengono importate nell’Unione Europea e negli Stati Uniti.

I casi del primo tipo sono piuttosto evidenti: è chiaro che se McDonald va in Cina e ci apre 100, 200, 300 (si è perso il conto perché ogni giorno ne aprono uno) punti di ristorazione rapida non lo fa per esportare hamburger negli Stati Uniti e nemmeno nell’Unione Europea. Se Starbuks, il gigante del caffè, fa la stessa cosa non lo fa per portare caffè caldo negli Stati Uniti o in Europa, lo fa per conquistare giustamente, legittimamente mercati locali.

Se però l’Intel, che produce due terzi o tre quarti dei microprocessori fabbricati nel mondo, va in Thailandia e produce molti milioni di microprocessori l’anno, non lo fa per il mercato thailandese, il mercato thailandese non assorbirà nemmeno l’1%, forse lo zero virgola qualcosa, o forse nulla di quei microprocessori. Quei microprocessori sono fatti per tornare in Europa e negli Stati Uniti essendo stati prodotti a costi in presenza di diritti, livelli di sindacalizzazione, tutele giuridiche enormemente inferiori a quelli che si sarebbero registrati se quei microprocessori fossero stati prodotti nei dintorni di Milano, o a Tolosa o in qualche punto degli Stati Uniti.

Questo secondo tipo di investimenti diretti all’estero sono stati il canale attraverso il quale appunto sono passate le politiche del lavoro. In certi casi, il contrasto è macroscopico. Sono già stati fatti anche molti film su di essi. A un chilometro a nord della frontiera statunitense-messicana che prende California e Texas, vi sono lavoratori che guadagnano più di 30 dollari l’ora, che costano più di 60 dollari l’ora come costo del lavoro, e hanno nell’insieme protezioni giuridiche e sindacali notevoli, soprattutto nell’industria dell’automobile. Meno di un chilometro a sud vi sono lavoratori e lavoratrici che guadagnano 4-5 dollari al giorno, sono totalmente privi di protezioni sindacali (siamo in Messico), fanno orari tra il 50% e il 100% superiori a quelli dei colleghi, chiamiamoli così, americani che stanno due chilometri a nord, e così via.

In altri casi, il contrasto non è così evidente, perché laggiù basta fare un giro in macchina, se si può, di meno di mezz’ora per toccare con mano due realtà. Se uno ci riesce perché poi c’è un certo rischio a dire come si lavora nelle máquinadores, l’equivalente spagnolo delle sweatshop inglesi, cioè le fabbriche del sudore, le fabbriche dove si fatica e ci si spezza la schiena e si suda molto.

In Cina, in India, in Indonesia, nel Madagascar, in Sud Africa e in moltissimi altri paesi, è molto più difficile stabilire delle connessioni visibili e dirette, ma esse esistono se uno le va a cercare. Più dell’80% dei PC, dei computer portatili, ormai sono tutti portatili, sono prodotti in Cina e sono venduti poi con marchio IBM, Intel, Acer, HP e alcune altre. Più dell’80% dell’abbigliamento è prodotto nei paesi emergenti; una parte rilevantissima del made in Italy è prodotta nei paesi emergenti, soprattutto in India; e si può continuare con un lunghissimo elenco. Il 95% dei giocattoli del mondo è prodotto in Cina su disegno della Mattel o di altre grandi imprese americane o europee.

Quando si parla di competitività, quando si parla della necessità di far fronte alla marea delle merci che i cinesi impudentemente esportano in tutto il mondo, o non si sa di cosa si sta parlando (e ahimè è il caso di molti politici), o si sa benissimo di che cosa si sta parlando ma si costruisce una coltre che ricopre la realtà delle politiche del lavoro che la globalizzazione per così dire ingloba, che la globalizzazione in sé contiene.

Il fatto di poter produrre il made in Italy, i computer, i cellulari, i microprocessori e moltissime altre merci a costi che grazie alle misere, se non miserabili, condizioni di lavoro in cui vengono prodotte costano pochissimo, questo fatto dovrebbe essere visto, dovrebbe essere conosciuto come il principale fattore di erosione delle condizioni di lavoro che esistono nel nostro paese come in altri. La situazione del nostro paese non è dissimile da quella che c’è in Francia, in Germania, perfino in Svizzera, non parliamo del Regno Unito e magari degli stessi Stati Uniti.

Sono state le grandi imprese europee e americane, e italiane non poche, che hanno messo in rapporto grossomodo un miliardo e passa di persone da 5, 8, 10 dollari al giorno di retribuzione, quando tutto va bene (diritti zero, sindacati zero, eccetera) con il mezzo milione di persone di cui fanno parte i 25 milioni di lavoratori italiani che invece hanno retribuzioni che rispetto a quelle altre vanno sicuramente considerate ancora relativamente elevate, con diritti ancora notevolmente elevati e condizioni di lavoro umane, anche se in via di progressivo appesantimento.

Cosa se ne trae da questo? Se ne trae che politiche del lavoro che volessero veramente evitare che il lavoro italiano, o europeo, o altro, scenda lungo le scale del diritto, delle retribuzioni, delle condizioni ambientali eccetera, verso le pessime condizioni che si osservano nei paesi emergenti, dovrebbe essere una politica, dovrebbe essere una serie di politiche che sono impegnate soprattutto a migliorare le condizioni di lavoro nei paesi emergenti.

Se importiamo computer da 200 dollari dalla Cina, dovremmo cercare di esportare in Cina diritti, sindacati, leggi serie sul lavoro. Ma questo vale per un centinaio di paesi emergenti, non solo la Cina, anche se questa è in primo piano date le sue dimensioni e anche il suo peso nella globalizzazione complessiva.

Obiezione del politico medio, o del sindacalista medio, o del docente universitario medio: non si può fare, perché come si fa a dire ai cinesi invece di imporre il minimo, come dice la nuova legge sul lavoro entrata in vigore il 1° gennaio 2008 in Cina, che impone un salario minimo di 0,75 dollari l’ora, quindi se uno fa 10 ore mette insieme 7 dollari e mezzo e non c’è parità di potere d’acquisto che tenga. Sette dollari e mezzo al giorno in Cina sono comunque una miseria. Come si fa a dire ai cinesi “passate la legge in cui il minimo orario legale dovrebbe essere, che so, un dollaro e mezzo, due dollari”? Come si fa a dire “scendete da 70 ore o più, passate dagli orari discrezionali a orari legali, legalizzate, scendete verso, non diciamo verso le 48 o 40 ore, scendete verso le 50 ore o giù di lì”? Come si fa a dirlo ad altri 90 paesi nel mondo?

Ancora una volta siamo di fronte a una forma di incomprensione, o a una forma di ipocrisia che ha l’aggravante di non sapere nemmeno di essere tale perché, per esempio, come ricordo nell’ultimo capitolo del libro, quando il governo cinese diffuse una prima bozza della legge che prevedeva il salario minimo, che prevedeva di portare il salario minimo a 0,75 dollari l’ora, molte multinazionali o transnazionali, come dice l’ONU, americane ed europee operanti in Cina, se la presero moltissimo. Dissero e scrissero: “Dove andiamo a finire!”. Passando da 0,65 o meno a 0,75 dollari l’ora!

La stessa legge prevede anche che vi sia un minimo di indennità nel caso di rescissione del rapporto di lavoro, prevede che i contratti devono avere una scadenza scritta, da tre anni in su possibilmente. Le Camere di Commercio di Pechino e di Shangai, che sono rispettivamente le Camere di Commercio americana ed europea fecero fuoco e fiamme, dissero: “Dove andiamo a finire! Se il governo cinese ci impone questo taglione, noi de-localizzeremo”. Minaccia terribile anche se non si sa bene dove sarebbero andate a de-localizzarsi. Peggio della Cina c’è soltanto il Vietnam, forse, e naturalmente un nugolo di paesi africani, dove non a caso la Cina sta intervenendo molto pesantemente.

Queste reazioni, queste pressioni esercitate dalle camere di commercio e da molte grandi aziende americane ed europee furono così violente e così sfacciate che un buon numero di deputati e senatori statunitensi, parecchi dei quali repubblicani, scrissero al presidente Bush per dire: “Noi siamo inorriditi nel vedere che aziende americane, che dovrebbero essere portatrici del credo democratico dell’uguaglianza tra i lavoratori, si impegnino in campagne intese a mantenere le condizioni di lavoro dei lavoratori cinesi nelle condizioni tristissime in cui lavorano oggi”.

Questo, per dire, è soltanto un punto, che non è vero che non sia possibile. Per intanto organismi internazionali come la Commissione Europea che è l’organismo più a destra di tutta l’Unione Europea compreso il Parlamento Europeo che è molto più a sinistra della Commissione Europea, usando questi termini, solo che il potere reale di fare le leggi non ce l’ha il Parlamento Europeo che è eletto ma la Commissione Europea che non è eletta. Però se il Parlamento Europeo e l’Unione Europea si rendessero conto che una politica del lavoro passa attraverso l’analisi dei processi di globalizzazione, e passa attraverso l’esportazione delle condizioni di lavoro dell’Unione Europea verso i paesi emergenti, potrebbe in realtà fare molto.

Così come potrebbero fare molto i sindacati internazionali. Adesso ci sono stati vari tipi di unificazione anche in Europa, ormai siamo in presenza di una sorta di sindacato europeo, si chiama Confederazione Europea dei Sindacati, che non brilla per la particolare vigoria con cui affronta questi temi, ma ha troppi condizionamenti interni. Resta il fatto che esso rappresenta 300 milioni di lavoratori e se battesse il pugno sul tavolo potrebbe ottenere nel campo delle politiche del lavoro, rivolte sia all’interno sia all’esterno, risultati importanti.

Così come, quella che è nata di recente, la Global Unions, le unioni sindacali globali che raggruppano altri precedenti casi di organizzazioni sindacali internazionali, potrebbero fare molto nella scia di quel poco, poco ma non nulla, che è stato fatto in alcuni settori. Ad esempio, nel campo dell’abbigliamento, che è un settore terribile perché si osservano in esso tra le peggiori condizioni di lavoro del mondo, comprese quelle che si registrano a New York, o magari in qualche sottoscala milanese, o di Prato, o altrove, beh, sono stati stipulati degli accordi tra i sindacati del tessile e dell’abbigliamento internazionali e varie corporation che hanno accettato di sottoscrivere degli accordi per cui migliorano sia i livelli salariali sia le condizioni di lavoro in paesi come l’India, l’Indonesia e le Filippine, o altrove, condizioni che sino in tempi recenti sono stati veramente terribili.

Anche in campo minerario è stato fatto qualcosa di abbastanza importante; le miniere sono un settore in cui è altissimo il tasso di incidenti, è altissimo il tasso di malattie professionali, è altissimo il tasso di lavoratori che a 45 anni non ce la fanno più, e altre cose del genere. Alcuni sindacati internazionali hanno stipulato degli accordi con alcuni gruppi minerari per il miglioramento – in Guatemala, in Brasile, in Indonesia, in India – delle condizioni di lavoro dei minatori.

Non è vero che non si può fare. È vero che si può fare se si parte da un’analisi della globalizzazione che è fondata per grandissima parte su un’idea sostanzialmente regressiva e reazionaria di politica del lavoro. Volendo sostituire a essa una politica progressista è chiaro che sul piano nazionale non si può fare molto, ma molto si potrebbe fare sul piano internazionale.

Concluderei con un interrogativo che leggo adombrato ma che la crisi in atto impone di affrontare. L’interrogativo è questo: se il capitalismo, il sistema capitalistico, non fosse mai più in grado di assicurare un’occupazione decente, secondo i canoni dell’OIL, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, e non fosse mai più in grado di assicurare una piena occupazione. Il capitalismo non ha mai fatto gran che per assicurare una piena occupazione, però sta il fatto che nei 30 anni dopo la Seconda guerra mondiale ci si è andati abbastanza vicini. Però la crisi detta finanziaria, ma che in realtà è una crisi che ha dietro di sé un’enorme quantità di fallimenti dell’economia-mondo, come la chiamo io, la crisi mette in luce come anche con la ripresa, il recupero, le cose che vanno meglio, la luce in fondo al tunnel, eccetera,bisognerebbe far fronte a questa seria, serissima possibilità: che la piena occupazione nel sistema capitalistico così com’è, nel mercato del lavoro così com’è, sia ormai un progetto inattuabile. E lo stesso mantenimento di salari ragionevolmente elevati non sia più realistico.

La crisi anticipa un mondo con un tasso di disoccupazione molto alto e prevalentemente un mondo di bassi salari. Teniamo conto che il rapporto dell’OIL del 2008 dice che al mondo ci sono un po’ più di 3 miliardi di persone che hanno un lavoro su 6 miliardi e mezzo di abitanti; più della metà di questi lavoratori, cioè un miliardo e mezzo non è in grado di assicurare a sé e ai propri congiunti e familiari, persone che dipendono dal lavoratore, un reddito superiore ai 2 dollari al giorno. Il conto è poi presto fatto perché quelli che secondo le ultime riclassificazioni e rettifiche della Banca mondiale, quelli che hanno un reddito che non arriva ai 2 dollari al giorno superano i 2 miliardi e mezzo, quindi non siamo molto distanti anche se le due stime provengono da canali molto differenti.

Comunque, abbiamo un 50% di lavoratori che non possono assicurare a se stessi e ai propri congiunti (2 o 3 a testa) più di 2 dollari al giorno, il che vuol dire che in media guadagnano meno di 10 dollari al giorno.

Il mondo post-crisi va in quella direzione, è possibile che vada in quella direzione: saranno ribassi per tutti, disoccupazione molto elevata, ulteriore sviluppo della già enorme economia informale di cui il nostro lavoro nero e l’economia sommersa è un particolare caso tra i molti altri che toccano sia i paesi sviluppati sia i paesi emergenti.

Allora, la politica dovrebbe guardare a questo rischio, a questo fatto, e pensare a due possibili soluzioni adatte naturalmente ai nostri paesi, ma in qualche modo bisogna cercare di esportarli verso i paesi emergenti. Sono progetti su cui un certo numero di economisti non di mainstream, compresi alcuni che stanno dentro l’OIL, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, un certo numero di giuslavoristi, qualche sociologo, hanno speso e spendono parecchio impegno. Sono due proposte che vanno sotto il titolo di “reddito base” (basic income) e “lo stato come datore di lavoro di ultima istanza”.

Lo stato si è dimostrato e si sta dimostrando in tutti i nostri paesi il prestatore, il pagatore di ultima istanza. Lo stato ha pagato, sta pagando trilioni di dollari e di euro a banche sull’orlo del baratro; in questa idea lo stato dovrebbe porsi come il datore di lavoro di ultima istanza, ossia quello che offre un lavoro produttivo, prevalentemente nella produzione di beni pubblici, ma non come necessità assoluta, nelle regioni, nei luoghi e nei momenti in cui è chiaro che l’apparato produttivo capitalistico non ce la fa; quando la disoccupazione arriva al 10, 12, 15 per cento¸ il tentativo è quello di farla ridiscendere entro il limite fisiologico del 5%.

Per fare questo ci vorrebbe non soltanto lo stato come prestatore di ultima istanza che salva per necessità gli istituti finanziari, che in realtà non perdono, ma che si impegni anche a fare il datore di lavoro di ultima istanza creando centinaia di migliaia o milioni di posti di lavoro nei momenti e soprattutto nelle regioni in cui questo è necessario per abbassare appunto il tasso di disoccupazione.

Ho toccato la nota dei beni pubblici perché è uno dei dati più gravi del nostro paese, ma anche di altri come gli Stati Uniti. Il presidente Obama in qualche misura lo sta tirando fuori ma gli Stati Uniti soffrono come noi di un divario insopportabile e in prospettiva disastroso tra la ricchezza privata e la povertà pubblica, tra la ricchezza media, ma anche la straordinaria ricchezza di minoranze, e la povertà dei beni pubblici, i trasporti pubblici, i ponti, le strade, le ferrovie, la sanità, le pensioni. Anche soltanto in termini fisici di microstrutture, lo stato come datore di lavoro di ultima istanza avrebbe molto da fare.

Negli Stati Uniti, ad esempio, un articolo di Scientific American di 2 o 3 anni fa ormai mostrava con indici grafici, tabelle, eccetera, che negli Stati Uniti ci sono 45 mila ponti a rischio crollo, comprese le autostrade, comprese le strade minori, compresi tutti, perché i ponti hanno bisogno di manutenzione, siano di metallo, di legno o di cemento, o di mattoni, o di altro hanno bisogno di manutenzione. Di manutenzione lo stato non ne fa da decenni e gli Stati Uniti hanno 45 mila ponti a rischio crollo.

Noi abbiamo il 50% di scuole che se non sono a rischio crollo non sono a norma quanto a sicurezza, e questo lo si è scoperto 10-15 anni fa non adesso. Quindi lo stato come datore di lavoro di ultima istanza potrebbe avere nei beni pubblici, a cominciare da quelli fisicamente toccabili e visibili, la possibilità di evitare il paradosso keynesiano. Keynes diceva: “Se uno stato vuole creare lavoro in modo assolutamente stupido, impegna metà dei disoccupati a scavare delle fosse in cui seppellisce montagne di danaro che poi viene ricoperto, e poi paga l’altra metà dei disoccupati per scavare le fosse che sono state riempite, recuperare il danaro e pagare tutti”.

L’alternativa è produrre dei beni reali come scuole, ponti, strade, ferrovie decenti e altre cose del genere. Questo modello non è oggetto di fiumi di lavori, però ce ne sono molti e alcuni sono anche studi molto recenti, studi del 2007-2008 che partono dal paradosso di trilioni di dollari (un trilione sono mille miliardi di dollari) che vanno a banche che si sono comportate in modo assolutamente indecente e i cui dirigenti o restano allo stesso posto, o lasciano il posto con 100 milioni di dollari, mezzo miliardo di dollari e cose del genere, e invece uno stato che oltre a salvatore o prestatore di ultima istanza si configura anche come datore di lavoro di ultima istanza.

Sull’altra ipotesi che una politica che volesse affrontare in modo nuovo le politiche del lavoro potrebbe considerare la questione del basic income Sul reddito di base ci sono molti studi, c’è anche una piccola associazione che se ne occupa, ma comunque vi sono studi molto seri, alcuni dei quali di nuovo vengono dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

Il reddito di base, così come lo vedono i suoi rappresentanti, diciamo più radicali, anche se la maggior parte di essi ragiona poi in termini economici molto realistici, molto terra-terra, il reddito di base deve avere alcune caratteristiche. Essere incondizionato, si potrebbe cominciare con un reddito leggermente condizionato per esempio per età, o per le condizioni di estremo bisogno, o a fronte di situazioni di disabilità. Però l’ideale del reddito di base è quello di essere unconditional, non condizionato a nulla; si ha diritto a esso in quanto cittadini della Repubblica.

Oltre a essere incondizionato dovrebbe essere una base effettiva, non dovrebbe essere un reddito ampio abbastanza da scoraggiare il lavoro, ma abbastanza alto da far fronte alle esigenze primarie della vita di una famiglia. In parole povere, un reddito di base dovrebbe essere intorno agli 800-1000 euro mensili. Il reddito di base dovrebbe avere, si sostiene, molte funzioni positive nei riguardi dell’organizzazione produttiva delle imprese perché, presentandosi come diritto accessibile a tutti, aperto a tutti, metterebbe in condizioni chiunque di trattare le condizioni di lavoro. Se uno ha un reddito zero accetta qualunque tipo di lavoro, 60 ore vanno benissimo, 600 euro al mese vanno benissimo. Se nell’aria si respira amianto, carbonella, alcoli di varia natura, va benissimo perché non si è in condizioni di trattare. 600 euro sono quasi la fame ma non sono la fame. Se quella persona disponesse di 800-1000 euro al mese non condizionati sarebbe in condizioni di trattare, mentre normalmente non lo è, e inoltre spingerebbe le imprese a forme migliori di organizzazione del lavoro.

L’idea del reddito di base è stata contrastata, criticata, confutata sulla base di molte idee, di molti principi, viene criticata da molti punti di vista. La prima critica è che costerebbe troppo. Si tratta di fare i conti perché la cassa integrazione non è che non costi, le mobilità lunghe costano. La cassa integrazione costa sì e no 800 euro lordi al mese e presenta il vantaggio di mantenere fermo il contratto di lavoro. Ma il contratto di lavoro della mobilità lunga non c’è più. Molte decine di miliardi che l’INPS versa e il cui versamento viene surrettiziamente visto come il costo del sistema pensionistico, mentre è del tutto falso, è una forma di assistenza, comunque sono decine di miliardi spese in forme di varia assistenza.

Ci sono le questioni nei confronti delle quali la destra ovviamente è un pochino sorda, ma le questioni sono il reddito di base che permetterebbe di guardare il futuro con maggiore serenità, di trattare sul costo del lavoro, di spingere verso migliori forme di organizzazione del lavoro stesso. Certo ha un costo. Ma quanto costa la disoccupazione?

Quanto costa la disoccupazione in termini di salute perché per intanto le persone o trascurano la propria salute per vedersi rinnovare il contratto, o accettano qualunque tipo di lavoro anche nello scantinato pieno di vapori di vernice pur di avere un reddito. Quanto costa la disoccupazione in termini di matrimoni falliti, di giovani e giovanissimi che crescono con una sorte di vuoto dentro e che hanno poi come esito soltanto o il ricorso alla violenza o il ricorso alla droga. Quanto costa la disoccupazione in termini di peggioramento della vita sociale. Quanto costa in termini di criminalità, ad esempio.

È difficile quantificare queste cose però una politica che non metta sul piano dei costi sia i costi del basic income, ma anche i costi sull’altro piatto i costi della disoccupazione, semplicemente non è una politica all’altezza dei tempi.

Ho messo sul tavolo, possiamo discuterne un po’, questi due temi che oggi sono molto discussi in parecchi paesi, ahimè meno che nel nostro. Le cose migliori spesso vengono dagli Stati Uniti ma spesso anche da Ginevra, come ricordavo, dove ha sede l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Non dovremmo essere ciechi dinanzi a questo fatto: è altamente probabile che il capitalismo, anche dopo la crisi, non sia più in grado di offrire né piena occupazione, né salari elevati per tutti, salari crescenti anche per i lavoratori dei paesi emergenti. Occorre contrastare questo magari continuando a importare i beni prodotti in Thailandia e in Cina, ma cercando di esportare diritti e condizioni di lavoro, ma anche pensando ad alcune soluzioni di cui si discute in realtà da parecchio tempo, da parecchi decenni, quali il datore di lavoro di ultima istanza e il reddito di base. Grazie.

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