Ricominciare dalle periferie

Il “secolo breve” che ormai abbiamo alle spalle ci ha consegnato oltre che due rovinosi conflitti mondiali, anche – ma soltanto con riferimento ad alcune nazioni – il modello idealizzato di “modernità” connesso inscindibilmente alla prorompente ascesa dell’industrializzazione, che declinato nel contesto urbanistico ha voluto dire il mito della (ri)costruzione di città “nuove”, quale prodotto concretamente realizzato di utopie politiche e del progresso sociale ed economico tipico di quella fase.

Così il Novecento è stato il periodo della crescita delle grandi metropoli e parallelamente dell’esplosione delle periferie, poiché la costruzione intensiva di quartieri residenziali per le classi sociali meno abbienti costituenti il nucleo della forza-lavoro ne è stato un tratto distintivo, e in Italia ha finito per “addizionare” il perimetro delle preesistenti città di fondazione storica.

Ovviamente non sono state tutte “rose e fiori”. I quartieri suburbani infatti si sono sviluppati spesso con criteri ben diversi da quelli ipotizzati dai progettisti di cultura razionalista, disponendo così il costruito a macchia d’olio intorno ai centri di antica formazione, amplificando gli aggregati urbani in modo disomogeneo, in un’alternanza tra edifici residenziali, reliquati rurali, ambiti industriali, trascurando però di dotare queste nuove “isole urbane” di quei servizi necessari che ne avrebbero consentito l’elevazione della qualità della vita per i residenti.

Così il modello idealizzato modernista ha lasciato ben presto il posto a quello più prosaico derivato dalla crescita urbana ininterrotta, processo quest’ultimo alimentato dallo sviluppo produttivo che richiamava tantissimi lavoratori specialmente dal sud d’Italia e li collocava poi ai margini delle città industriali del settentrione.

Comunque in questo contesto socio-economico sono state date delle risposte interessanti sulle tematiche dell’abitare, poiché l’esigenza di poter disporre di un patrimonio immobiliare abitativo da cedere in affitto calmierato ai quei segmenti sociali che non erano in grado di disporre di redditi elevati ha radici remote nel Belpaese, ad esempio attraverso l’istituzione degli enti per l’edilizia residenziale pubblica (tema piuttosto controverso e forse più noto con il termine di “case popolari”), oppure mediante il piano denominato “INA-Casa” fortemente voluto dall’importante esponente democristiano di allora Amintore Fanfani, che ha rappresentato una inverazione di politiche di ispirazione Keynesiana, sempre in bilico però tra tradizione e modernità.

A questi fatti va aggiunto anche tutto l’apporto offerto dalle molteplici azioni di cooperazione privata, cioè di quelle imprese edilizie il cui fondamento dell’agire economico era (ed è) in primis il soddisfacimento delle necessità di alloggi per i propri soci.

La tendenza progettuale in generale fu quella di un certo “neorealismo architettonico”, che portava a reinterpretare gli stilemi razionalisti, rileggendoli anche alla luce delle implicazioni sociologiche e psicologiche connesse all’ambiente costruito: l’orizzonte ideale era quello di immaginare la casa come un “luogo felice”.

In seguito però molte di queste esperienze si sono rivelate alquanto ambivalenti. Infatti se in alcuni casi si raggiunse l’eccellenza in altri il soddisfacimento dei bisogni abitativi delle categorie sociali più deboli si rivelò con il tempo il luogo di una “moderna abiezione umana”, giacché era questo lo stigma di certi agglomerati urbani che caratterizzavano di sovente le nostre periferie cittadine.

La contrapposizione storica tra città-campagna infatti lasciò ben presto il posto a quella tra centro-periferia, connotando lo svantaggio della qualità della vita degli abitatori degli ambiti di corona. Tuttavia il “compromesso socialdemocratico” in salsa italiana consistente nell’accettazione da parte dei lavoratori del sistema capitalista in cambio dei vantaggi connessi alla quasi piena occupazione, al welfare in espansione, all’acquisizione per via democratica di crescenti diritti e tutele attraverso la mediazione sindacale – in una parola all’identificazione collettiva della classe operaia come motore di un progresso sociale condiviso – ha consentito un’emancipazione ed una buona integrazione delle compagini più svantaggiate, che avveniva di elezione proprio nei nuovi quartieri residenziali low-cost.

Il modello “periferia” si articolò però in modi differenti, distinguendo tra quelle legali e quelle abusive, tra i quartieri dormitorio di edilizia intensiva e le “città giardino”, tra borgate malfamate e residuati semi-rurali.  Le contraddizioni della fase sono state ben immortalate nei film e in alcuni romanzi di Pier Paolo Pasolini, ma anche nelle fatiche cinematografiche di Ermanno Olmi (“Il Posto”), di Carlo Lizzani (“La vita agra”) o di Luchino Visconti (“Rocco e i suoi fratelli”, tratto peraltro da un racconto contenuto ne “Il ponte della Ghisolfa” di Giovanni Testori), o di altri autori del filone neorealista e della commedia all’italiana quando la stessa era anche di impegno civile.

La metafora dello sviluppo è stata quindi tale fino a circa la metà degli anni settanta del secolo scorso, quando il “giocattolo” si è rotto, anche se il “preveggente” Pasolini lo aveva già stigmatizzato in precedenza definendolo appunto come “sviluppo senza progresso”: finiva così un “equilibrio instabile” che accanto a contraddizioni evidenti aveva portato con sé anche cospicui vantaggi.

Si appalesavano le criticità delle periferie urbane che non erano più l’habitat ideale per lo “sviluppo sostenibile” delle classi più povere, ma il luogo del degrado, del disagio, della violenza, da bonificare anche attraverso interventi draconiani di completa demolizione. Si certificava la fine del mito connesso ad una certa visione di modernità.

L’interesse verso la qualità dell’abitare degli strati sociali più svantaggiati andò scemando mentre sempre più energie venivano profuse verso la progettazione del paesaggio, intorno agli enormi edifici commerciali e alle sedi delle grandi società private – le nuove “cattedrali” della post-modernità – emblematico a questo riguardo è ad esempio il recente skyline di Milano, costituito da svettanti grattacieli che conferiscono alla città meneghina un’immagine sicuramente più internazionale e moderna.

Al di là del caso specifico del centro ambrosiano, la caratteristica saliente della città contemporanea è però quella del cosiddetto sprawl (in sintesi la dispersione urbana), cioè la città “diffusa” od “infinita”, quella “villettopoli” che uniforma lo spazio del costruito di certi ambiti in un unicum di capannoni, case alte, case basse, dove il senso di appartenenza ad una comunità tende ad affievolirsi, così come quello all’opposto del conflitto urbano che aveva nella piazza il luogo della sua rappresentazione, mentre la gerarchia dei poteri espressa dal patrimonio immobiliare non è più quella del passato (edifici per il culto, palazzi pubblici, residenze dei nobili o dell’alta borghesia).

Resta comunque un contesto generale di nichilismo dei valori universali, dove nuove forme di “comunità blindate” si stanno affermando: cioè quartieri resi sempre più inaccessibili, sorvegliati, protetti, che definiscono al loro interno i codici di comportamento degli abitanti, i quali si contrappongono in un territorio striato ad ambiti suburbani degradati oltre a dei veri e propri ghetti.

Così il conflitto, per il lavoro, la casa, le esigenze primarie ha lasciato il passo alla “rivolta”, alimentata invece dal desiderio incontrollabile di consumo, di consumare tutto ciò che è consumabile. La lotta all’attualità non è più tra la classe operaia ed il capitale ma contro a ciò che impedisce l’appropriazione del “Bengodi” che il territorio è in grado di offrire, e se questo desiderio non viene esaudito aumenta esponenzialmente il livello di frustrazione e l’odio individuale che il modello di società che “non ammette sconfitte” innesca.

Il territorio è quindi il luogo che racchiude le divisività di ordine culturale e le diverse mentalità che appartengono a gruppi, clan, minoranze sociali di massa; è lo spazio che scaturisce dall’opposizione tra il mercato e la sua società, dal cuneo che si insinua tra il mercato e il consumo.  Una nuova politica non può che ripartire dalla constatazione che non sono più i luoghi del lavoro al centro del conflitto, non più (o non soltanto) le rivendicazioni sul tempo comandato e sulle retribuzioni del dipendente subordinato, ma diversamente la liberazione del desiderio porta con sé una concentrazione sul presente, sulla soddisfazione qui ed ora che diventa valore d’uso, con il corollario che si porta inevitabilmente dietro di conflittualità, individualismo, intolleranza.

“Ripartire dalle periferie” pertanto non dovrebbe essere soltanto uno slogan svuotato di ancoraggio con la realtà. Al contrario significa stabilire una priorità di intervento politico, che si carica di ulteriori significati che vanno oltre allo storico disagio sociale, il quale viene ulteriormente appesantito di problematicità ad esempio in ragione dei flussi migratori. Inoltre è necessario cogliere l’elemento di innovazione che è in grado di offrire un contesto degradato quando lo stesso sotto la spinta rigenerativa dei vari attori sociali si ri-progetta. In aggiunta come ha più volte sottolineato Papa Francesco le periferie non sono soltanto un luogo “fisico” facilmente identificabile con un tratto di pennarello sulla carta, esse sono spesso le più impalpabili e diffuse “periferie esistenziali”, quelle del dolore, delle ingiustizie, dell’ignoranza; tuttavia con uno sguardo dalla periferia si può cogliere meglio ciò che accade nel mondo.

Il grande architetto Renzo Piano ci ha invitato a ricostruire le nostre città a partire dal “rammendo” delle periferie, pertanto la periferia può diventare veramente una chiave di lettura privilegiata del nostro tempo. Le forze politiche di sinistra, quelle più progressiste, dovrebbero occuparsi prioritariamente delle periferie fisiche ed esistenziali delle città; anzi potrebbero proprio ripartire da questi luoghi innanzitutto andando a visitarli e ascoltando le esigenze di chi ci abita, costruendo così un “punto di vista” e di conseguenza un programma politico sul quale richiedere il consenso.

Viviamo in una congiuntura dove sarà sempre più evidente lo scontro tra una weltanschauung che si fonda sulla solidarietà versus un’altra decisamente più egoista, ed è proprio in queste dinamiche che si inserisce la nuova “centralità” assunta dalle periferie.

Andrea Rinaldo

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2 commenti

    • betti sguerzi il 9 Luglio 2019 alle 14:12

    questa lettura mi ha riportato al saggio di Benedetto Saraceno “psicopolitica” – città salute migrazioni che consiglio vivamente

    • Mery Brescianini il 9 Luglio 2019 alle 11:29

    Splendida analisi che mi fa pensare, aggiungo che oltre alle periferie delle città esiste anche il disagio dei paesi dove sono state costruite case private e il territorio è stato riempito e molte sono vuote o abitate da vecchi soli con l’aggravante che i giovani vanno verso le città dove ci sono i divertimenti il lavoro e i paesi si spopolano.

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