Autore di un consistente lavoro ad ampio spettro sulla democrazia e le sue implicazioni concrete, il giudice emerito della Corte Costituzionale ha tenuto una relazione partendo dal proprio libro “La Democrazia ed i suoi limiti”.
Il problema aperto, ci dice Cassese, è quello di accompagnare la ricerca incerta di un modello democratico che non sia mediato dai partiti, che si accompagna a quella della gestione della circolazione incontrollata delle informazioni e alla gestione delle interdipendenze fra gli Stati, nonché tra questi e i vari poteri che si sono affermati nel mondo.
Ancora una volta la democrazia è chiamata a reinventare se stessa, ma non può farlo se non camminando sulle gambe delle donne e degli uomini di buona volontà.
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Presentazione di Luca Caputo 09′ 50
Introduzione di Lorenzo Gaiani a Sabino Cassese 45′ 03″
Domande del pubblico a Lorenzo Gaiani 16′ 42″
Risposte di Lorenzo Gaiani e Luca Caputo 09′ 30″
Relazione di Sabino Cassese 54′ 20″
Domande del pubblico 09′ 08″
Risposte di Sabino Cassese 09′ 03″
Domande del pubblico 19′ 16″
Risposte di Sabino Cassese 10′ 57″
Introduzione di Lorenzo Gaiani a Sabino Cassese
IL FUTURO POSSIBILE DELLA DEMOCRAZIA
Riflessioni a partire da “La democrazia e i suoi limiti” di Sabino Cassese
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E’ nota la frase di Winston Churchill, che del resto Sabino Cassese riprende in questo suo agile e prezioso libretto, per cui “la democrazia è il peggiore dei regimi possibili ad eccezione di tutti gli altri”.
In realtà il suo requiem è stato cantato più volte, sia da parte delle correnti nazionalistiche e protofasciste che fin dall’inizio del XX secolo ne decretavano la fine come parte integrante della rivolta idealista contro il positivismo e quella che Benedetto Croce (anche lui fortemente critico verso la democrazia prima di diventare il “filosofo della libertà”) chiamava la “mentalità massonica”, e che nel nome della Nazione dichiaravano superata ogni forma di pacifismo e di solidarismo prefigurando l’avvento del fascismo.
Non a caso Mussolini commemorando Enrico Corradini in Senato nel 1931 poté affermare che il leader nazionalista era stato un “fascista del 1896”, riconoscendo nella sua predicazione antidemocratica e antipacifista uno dei filoni che avrebbe dato vita al fascismo.
Ma la democrazia era anche violentemente contestata da sinistra, nel momento in cui le sinistre borghesi tradizionali e gli stessi filoni riformisti del movimento socialista venivano contestati non solo dagli anarchici ma anche dai sindacalisti rivoluzionari e dalle correnti massimaliste, che li accusavano di essersi adattati ai riti della democrazia borghese e di avere abbandonato la prospettiva di un cambiamento violento dei rapporti sociali.
Questa crisi latente, come è noto, precipitò con lo scoppio della prima guerra mondiale, quando le sinistre riformiste e borghesi decisero di appoggiare lo sforzo bellico delle rispettive Nazioni mentre le sinistre rivoluzionarie decisero di boicottarlo, e addirittura la componente bolscevica della socialdemocrazia russa dalla disfatta del potere imperiale trasse l’occasione per la presa del potere che provocò l’irreversibile rottura dell’Internazionale socialista.
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E tuttavia, credo che per lo “scacco della democrazia” valga lo stesso principio enunciato da Italo Calvino a proposito di chi parlava di “scacco della ragione”. Certo -affermava l’autore di Marcovaldo- di scacchi alla ragione ce ne sono ogni dieci minuti: solo che subito dopo la ragione trova il modo di superare l’ostacolo che le sie è frapposto, poiché la sua forza è proprio quella di tentare e trovare nuove risposte a tutte le sfide che le vengono poste.
E così è anche per la democrazia, che per tutti gli anni Trenta venne dichiarata irreversibilmente condannata dal dilagare dei totalitarismi che sembravano più moderni, vitali, giovani, rispondenti alle esigenze profonde dei popoli.
E invece, quando il totalitarismo fascista mostrò il suo volto più oppressivo ed orrendo, la democrazia sembrò a tutti il regime più desiderabile, e lo stesso accadde quando il totalitarismo comunista nei Paesi dell’Europa orientale degenerò in regimi burocratici ed oppressivi che caddero per le loro contraddizioni interne, la prima delle quali fu l’incapacità di realizzare la promessa essenziale del marxismo, la cessazione dell’oppressione dell’uomo sull’uomo.
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In linea generale, c’è un nesso di complementarietà tra lo stato di salute dei partiti e lo stato di salute della democrazia rappresentativa la cui qualità influenza l’identificazione dei cittadini nello stato democratico.
La natura delegata della democrazia rappresentativa, che non prevede la partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni politiche, assegna un ruolo fondamentale ai partiti per quanto riguarda l’aggregazione del consenso e l’orientamento dell’azione politica.
Il problema si può dire che è generalizzato perché la democrazia rappresentativa è la più diffusa nel mondo anche se caratterizzata da soluzioni istituzionali diverse in funzione della storia e della cultura politica dei singoli Paesi.
Tornando al nostro Paese, nel periodo iniziale dello Stato unitario, il circuito partito-parlamento-governo è stato facilitato dal carattere elitario di questa prima esperienza democratica al costo di una esclusione delle masse dal gioco politico.
Fino ai primi del novecento i votanti per censo e le rappresentanze parlamentari erano espressione di ceti minoritari e la politica svolgeva soprattutto una funzione di arbitro tra interessi privati (originaria espressione di Cavour).
L’inclusione dei cittadini nello schema della democrazia delegata è avvenuta per tappe successive e spesso sovrapposte la cui rilevazione può offrire spunti validi per valutare l’attuale situazione di crisi dei partiti. Un fattore di aggregazione è stata l’identità ideologica, tanto più inclusiva quanto più i partiti si sono fatti portatori di una concezione politica totalizzante che tendeva a coprire ogni aspetto della vita sociale.
Un esempio è dato dai partiti cattolici (dal Partito Popolare alla D.C.) che, richiamandosi al patrimonio spirituale cristiano e alla dottrina sociale della Chiesa, non solo orientavano il voto degli elettori ma ne stimolano la partecipazione alla costruzione del bene comune.
Non diversamente i partiti di ispirazione marxista il cui percorso doveva portare ad una società senza classi, in cui l’alienazione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo venivano eliminati.
Queste forti identità valoriali definivano anche i fini etici della politica e creavano barriere a difesa dell’integrità morale della classe politica. La caratterizzazione ideologica era anche sostenuta da un forte ricorso a simboli, bandiere, inni, manifestazioni, un insieme di liturgie politiche che rafforzava la partecipazione degli aderenti alla vita dei partiti, anche se in termini spesso passivi.
L’altra variabile con cui rinvigorire i rapporti tra partiti e democrazia rappresentativa è stata la politica sociale attraverso la quale è realizzata l’inclusione delle masse, tradizionalmente al margine della rappresentanza politica nello Stato, accrescendo la legittimazione del sistema democratico.
La creazione dello stato sociale, con l’introduzione di elementi di tutela solidaristica nel divenire dello sviluppo capitalistico, è un percorso che nei paesi europei è simboleggiato dall’economia sociale di mercato, punto di confluenza di filoni culturali di diversa ispirazione, cattolica, socialista, liberal democratica.
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Una questione da tutti evocata è quella dell’identità politica dei partiti. La crisi delle ideologie tradizionali non fa venir meno il tradizionale antagonismo tra “destra” e “sinistra” che orienta la scelta di gran parte dei cittadini in una società democraticamente organizzata.
Il problema dell’identità non esclude il riferimento ai tradizionali orientamenti valoriali da tradursi in premesse morali sulla cui base offrire soluzioni ai problemi su cui si confronta la contesa politica, nei limiti di sovranità ancora concessi alle politiche nazionali.
Rigore, equità e crescita rimangono i paradigmi alla luce dei quali i partiti sono chiamati a riposizionare i diversi interessi da loro rappresentati (capitale e lavoro per esemplificare) nella consapevolezza che la chiusura in una posizione difensiva, che si è espressa nel passato con l’inconcludenza della stagione riformistica, è all’origine della loro perdita di credibilità e del discredito delle istituzioni democratiche.
L’esperienza dei cosiddetti Governi tecnici dimostra che anche le decisioni impopolari destinate a rimuovere le incrostazioni nel funzionamento concorrenziale del mercato e le iniquità del sistema di protezione sociale non penalizzano il consenso popolare se i costi sono equamente ripartiti e percepiti dall’opinione pubblica come occasione per uscire dall’attuale situazione di crisi e rimettere in moto i motori della crescita.
Pur tenendo realisticamente conto delle attuali difficoltà, la cultura politica dei partiti non può eludere il problema di offrire una prospettiva di società migliore, a seconda dei valori di riferimento, in grado di ricostruire un percorso di progresso che valorizzi le grandi potenzialità umano tecnologiche disponibili e che riattivi i canali, oggi intasati, della partecipazione democratica. Un’altra questione, collegata alla prima, riguarda la strutturazione organizzativa dei partiti, nell’irrisolta alternativa fra il partito forte degli iscritti ed il partito debole degli elettori.
La natura associativa del partito pone in primo piano la figura dell’iscritto e le regole alla base dei processi decisionali interni ma non risolve il problema di canalizzare entro il partito le molteplici espressioni individuali e collettive che non se la sentono di farne parte strutturalmente. Altro problema inedito è la domanda di “leader carismatici” capaci di bucare il video, come si dice, stabilendo un rapporto diretto con gli elettori potenziali che mal si concilia con le regole della democrazia interna dei partiti.
L’alternativa del partito debole degli elettori favorisce i rapporti con i vari movimenti della società civile ma presenta il rischio che l’attivismo di minoranze meglio organizzate facciano perdere al partito il suo posizionamento baricentrico rispetto agli interessi che vuole rappresentare (il caso di alcune primarie). Va ricordato che il partito democratico USA nel corso degli anni ’70, influenzato con le primarie da minoranze radicali, ha perso il suo tradizionale rapporto con la “middle class” condannandosi ad un ruolo minoritario per molti anni.
La scienza organizzativa, per quella minima parte che si è dedicata alle associazioni (politiche, sindacali, ecc.) ha approfondito le caratteristiche dei modelli organizzativi “a legami deboli” basati su reti interorganizzative annodate intorno a poli gravitazionali (i nodi del reticolo), al fine di governare al meglio i rapporti tra i giochi interni, partecipativi degli iscritti e quelli esterni del coinvolgimento dei vari movimenti della società civile.
Nonostante le incertezze applicative, rimane aperto il problema di rendere l’organizzazione dei partiti flessibile e pervasiva, senza penalizzare la loro identità politica e la loro capacità decisionale.
Un contributo alla semplificazione del problema posto, può essere fornito dal ridimensionamento del ruolo dei partiti nell’occupazione delle istituzioni democratiche. Si tratta di un problema largamente percepito dall’opinione pubblica e ritenuta causa non secondaria del degrado e della corruzione nella gestione della cosa pubblica.
Il ruolo dei partiti è di aggregare i consensi e di fornire orientamenti alle istituzioni democratiche di governo e di controllo che devono godere delle necessarie autonomie per essere sottoposte alla fine del mandato al giudizio degli elettori.
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Da dove arriva oggi la sfida alle democrazie? Cassese elenca molti fattori, ma credo che , almeno per quel che riguarda le democrazie occidentali, essi siano riconducibili al diffuso senso di insicurezza che permea le classi medie. Si badi bene, sicurezza in senso lato: già all’inizio del nuovo secolo si diceva che alla grande paura dello scontro nucleare fra USA e URSS erano subentrate, dopo il crollo dei regimi comunisti, tante piccole paure collaterali, che trovarono poi una loro forma all’indomani dell’11 settembre 2011 nella paura del terrorismo islamico.
Ma vi è qualcosa di più radicale, ed è il venir meno per la classe media che forma l’ossatura delle società occidentali di quella rete di garanzie sociali ed economiche che era data per scontata, aggravata dagli esiti di una crisi economica di vasta portata come quella scatenatasi a partire dal 2007 che è stata originata da un capitalismo rapace sconnesso dal sistema produttivo e che si sta concludendo con un ridisegno dei rapporti di forza sociali che rende ancor più debole la posizione del ceto medio.
Da qui origina un rigetto globale nei confronti delle élites, politiche, intellettuali ed economiche, accusate di incapacità nello svolgere il loro compito di protezione degli interessi popolari diffusi, giacché la promessa della democrazia non è soltanto quella della libertà di parola, di pensiero e di voto ma è anche e soprattutto, per usare un linguaggio rooseveltiano, quello della libertà dalla paura.
E non è un caso che la critica alla democrazia rappresentativa venga da chi cavalca tutte le paure: quella degli immigrati, la cui presenza in termini numerici viene triplicata per avallare la paura del terrorismo e della competizione sociale.
La diffidenza verso la scienza cosiddetta ufficiale (ossia la scienza tout court) ben esemplificata dall’avvilente e pericolosa polemica sui vaccini.
Il rifiuto delle stesse forme rappresentative della politica, cui si vuol sostituire o una sorta di rapporto immediato fra il popolo ed il capo -laddove il popolo è chi la pensa come noi: la presenza di idee difformi non viene contemplata se non per demonizzarla- o la famosa democrazia digitale in cui “uno vale uno” salvo scoprire che la gestione del consenso avviene tramite un algoritmo i cui codici sono gestiti da un’impresa privata.
Insomma, la democrazia rappresentativa viene vista con sospetto perché la si ritiene distante dalle preoccupazioni reali dei cittadini, e a coloro che si occupano professionalmente di politica si guarda come ad una casta di privilegiati.
A ciò si aggiungano anche i crescenti moti di ripulsa verso la cosiddetta globalizzazione, soprattutto nella forma dell’interdipendenza delle scelte politiche dei singoli Paesi , vista come un attentato alla sovranità: in particolare nel nostro Paese questa minaccia viene identificata con l’Unione europea e con l’euro.
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La promessa delle forze che contestano la democrazia rappresentativa, e che per comodità si sogliono definire “populistiche” – secondo la definizione dei politologi britannici Albertazzi e Mc Connell che nel populismo vedono un’ “«un’ideologia secondo la quale al “popolo” (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle “élite” e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del «popolo sovrano» – è quella di “proteggere”.
Non è un caso che molti populisti indichino come società ideali quelle in cui in cambio della restrizione di certi diritti individuali viene garantita sicurezza sia nel senso dell’ordine pubblico sia nel senso di una certa prosperità economica: ad esempio la Russia di Putin.
Il limite più evidente dell’anti-elitismo tuttavia è quello dell’incompetenza, per cui l’antica aspirazione di Lenin di far dirigere lo Stato anche ad una cuoca può anche realizzarsi, ma a prezzo di scontare l’incompetenza e l’approssimazione dei neofiti.
Peraltro, la perdita di qualità del ceto politico -che peraltro non riguarda solo le forze populiste- esalta per forza di cose il ruolo del ceto burocratico cui incombe l’onere di tradurre in atto la linea politica di chi è stato scelto dal popolo.
Solo che di fronte all’incompetenza e alla mancanza di chiarezza di idee del ceto politico il ceto burocratico sovrapporrà inevitabilmente la sua politica, e non è un caso che gli ultimi decenni, a fronte della progressiva eclissi della politica si sia ampliata la forza d’intervento dei cosiddetti corpi separati, in particolare del potere giudiziario (penale, civile, amministrativo, contabile) che entra pesantemente nei meccanismi politici ed amministrativi irrigidendo le procedure e sottoponendo gli amministratori ad un continuo stress decisionale.
Ma affrontare questa situazione implicherebbe una grande azione riformatrice cui la nostra società sembra essere refrattaria visto il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Soprattutto richiederebbe -eh, sì- che ci fossero luoghi di formazione di un’élite, di un ceto dirigente, di una classe politica, la si chiami come la si vuole, giacché la sociologia, da Pareto in poi, ci insegna che sempre le società umane sono gestite da élite e il problema reale è quello della forma e della modalità della loro circolazione.
Un tempo questo ruolo era garantito dai partiti politici, sia per elezione sia per cooptazione (più la seconda che la prima, in verità) nel quadro di riferimenti certi sotto il profilo ideologico ed organizzativo che richiamavo in precedenza.
Ora il problema aperto, ci dice Cassese, è quello di accompagnare la ricerca incerta di un modello democratico che non sia mediato dai partiti, che si accompagna a quella della gestione della circolazione incontrollata delle informazioni e del suo limite e alla gestione delle interdipendenze fra gli Stati nonché tra questi e i vari poteri che si sono affermati nel mondo.
Ancora una volta la democrazia è chiamata a reinventare se stessa, ma non può farlo se non camminando sulle gambe delle donne e degli uomini di buona volontà.
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