“Nei partiti è più difficile vivere con quanti ne fanno parte che agire contro coloro che vi si oppongono”
Così nelle sue “Memorie” pubblicate postume il conte Paul de Gondi, cardinale di Retz, mortale nemico del cardinale Giulio Mazzarino per l’eredità di un terzo cardinale, il più grande di tutti, Armand Jean de Richelieu. Il partito a cui il cardinale faceva riferimento era quello della “Fronda” il partito nobiliare che si proponeva di contrastare il movimento di centralizzazione della Francia sotto il potere del Re, movimento iniziato da Richelieu, perfezionato da Mazzarino e portato a termine dal Re Sole e da Colbert.
Un partito di aristocratici del XVII secolo è ovviamente altra cosa dai partiti di oggi, ma è un dato di fatto che la storia dei partiti è spesso storia delle loro correnti interne, che esistono in tutti i partiti, grandi e piccoli che siano (si pensi a Rifondazione comunista, quasi estinta ma dilaniata dalle lotte interne, e alle sue quattro correnti trockiste diventate altrettanti partiti inesistenti sul territorio ma impegnatissimi a scomunicarsi l’una con l’altra in nome dell’eredità del Maestro che, da persona pratica, li avrebbe probabilmente fatti fucilare tutti quanti).
La presenza delle correnti è un dato fisiologico, e volerne negare l’esistenza è controproducente ed ingiusto perché limita la qualità del dibattito politico. Certamente la presenza delle correnti può creare fenomeni degenerativi, in particolare due che sono strettamente correlati fra di loro:
- trasformare il partito in federazione di correnti, e fu il caso ad esempio della DC, sebbene un vincolo generale permanesse, al punto che nel 1990 la Sinistra DC fece dimettere i suoi Ministri dal VI Governo Andreotti per protestare contro la legge Mammì, ma non rifiutò il voto di fiducia al Governo rimpastato;
- anteporre la lealtà di corrente a quella di partito, e questo purtroppo è quanto è accaduto nel PD.
Nel Partito Democratico si è assistito in effetti dal 2013 in poi ad un singolare fenomeno di delegittimazione sistematica dell’istanza dirigente, frutto di una mentalità proprietaria verso il partito – anzi, verso la “Ditta”, di cui ci si considerava gli eredi e i gestori in perpetuo – coltivata pervicacemente da una minoranza incapace di accettarsi come tale, che ha poi promosso una scissione quando ha visto che comunque la sua condizione minoritaria non sarebbe cambiata in sede congressuale.
Ci sono stati evidentemente errori anche gravi di gestione da parte di chi ha diretto il partito in questi anni – di Matteo Renzi in primo luogo – ma nessuno ha misurato seriamente quanto sconcerto abbia seminato nell’opinione pubblica la vicenda di un partito in cui un Segretario eletto per due volte con larghissimo consenso non ha ancora finito di parlare che subito si leva il controcanto delle minoranze interne. Credo di poter dire in assoluta coscienza che anche la residua minoranza del PD alle ultime elezioni ha fatto poco o nulla per collaborare allo sforzo collettivo a meno che fra i candidati non vi fossero suoi adepti, ed anzi ha fatto di tutto per seminare scetticismo e disfattismo.
Ovvio che a questo punto l’opinione pubblica (che poi in sostanza vuol dire gli elettori) abbia finito per considerare il dibattito interno ai partiti come una sorta di patologia (ed in effetti, guardando alla condizione del PD, con qualche fondamento) e del tutto fisiologico invece il regime da caserma che regna nella Lega o il modulo orwelliano che regola la vita dei Cinque stelle. Ancor più ovvio che le elezioni le abbiano vinte loro.
E dunque da dove ripartire?
Dai mitici Circoli? E che cosa c’è nei Circoli? Veramente essi hanno il polso del territorio, sono luogo di dibattito, sono terminali delle aspirazioni reali dei cittadini? Un giudizio scettico è più che legittimo.
Dalle relazioni con l’associazionismo, il sindacato, l’altrettanto mitica società civile penalizzata dalla perfida disintermediazione? Ma siamo sicuri che questo tipo di organizzazioni, la cui adesione è determinata più dai servizi che riescono ad allocare che non dalle loro posizioni in materia sociale e politica siano la chiave della soluzione del problema? Non sono forse esse stesse parte del problema?
Dall’abbandono della vocazione maggioritaria recentemente dichiarato dallo stesso dirigente politico che per primo l’aveva ideata? Dall’approdo ad un nuovo Ulivo che assomiglia non al Fronte repubblicano di cui parla Carlo Calenda ma piuttosto al Fronte popolare? Dalla riscoperta di un cattolicesimo democratico ed una socialdemocrazia largamente immaginari e comunque già morti e sepolti nel 2007 (e ciononostante fonte di ottime carriere parlamentari per certuni che di loro non disponevano nemmeno del voto dei familiari)?
Soprattutto il rischio è quello di una totale mancanza di capacità di analisi, soprattutto da parte di coloro che reclamano un PD “più di sinistra”. Significa che bisogna tornare al marxismo? Ma magari si potesse leggere da qualche parte una vera analisi marxista condotta secondo seri canoni filosofici ed economici! Temo però che il tipo di sinistra che ha in mente certa gente è quella che potremmo chiamare la “sinistra con la lacrima”, quella che vive più di emozioni e di frasi fatte che non di capacità analitica e di rigore intellettuale. Quella che dice che occorre riscoprire la gente comune, ma poi salta fuori che le uniche persone comuni che conoscono sono la colf del loro attico e la tata dei loro bambini. Quella che scrive articoli scellerati per dire che “non bisogna parlare dello spread ma delle persone”, e sembra non comprendere che le questioni economiche e finanziarie impattano – eccome – sulla vita delle persone, a partire dai ceti più popolari, ai quali ormai occorre spiegare con chiarezza – ma lo ha già fatto il nuovo Ministro dell’Economia – che nulla di quanto è stato promesso in campagna elettorale verrà mantenuto e che quindi non ci sarà alcuna fuoriuscita dall’euro né il reddito di cittadinanza né, probabilmente, la flat tax, e che la loro condizione sociale rimarrà difficile anche se verrà fatto qualche altro atto dimostrativo sui migranti tipo “Aquarius”.
D’altro canto, non c’è molto da sperare da un gruppo dirigente che – con rare eccezioni – ha affrontato la cruciale questione se cercare o meno un accordo di governo con il M5S non pesando i pro ed i contro e domandandosi quali ne sarebbero state le implicazioni, ma semplicemente calcolando quanto questo avrebbe danneggiato Tizio o Caio nella lotta interna. Del resto, l’autentico terrore di contarsi, che si traduce alla fine dei dibattiti o nel non voto o nella farsa ipocrita dell’unanimità, e l’odiosa “dittatura dell’uomo solo al comando” viene sostituita da un sinedrio di capicorrente spesso autolegittimati in nome di una collegialità che, come sempre, fa rima con immobilità, e non è nemmeno in grado di perseguire disciplinarmente personalità di rilievo che apertamente fanno l’apologia di altri partiti politici come il Presidente della Puglia.
E comunque delle carte da giocare ci sono, perché il Partito Democratico è ancora fortemente radicato nei territori – per quanto meno di prima – è inserito nelle reti sociali e, soprattutto, può contare su quadri amministrativi sperimentati che sono ancora riconosciuti credibili dai cittadini come dimostra la tornata elettorale di giugno.
Che cosa manca? Manca l’idea fondativa, la carta vincente, quel concetto da ripetere ossessivamente dieci, cento, mille volte, e non deve ripeterlo solo il leader – perché di un leader non si può fare a meno in linea generale e soprattutto in questa fase storica – ma tutto il partito ad una voce sola, e che deve diventare il tratto distintivo ed immediatamente riconoscibile del partito.
E poi c’è un’altra cosa. Si narra che, al loro primo incontro, i due grandi equilibristi del potere, Talleyrand e Fouché, che attraversarono con cinismo e determinazione la grande buriana della Rivoluzione e dell’Impero napoleonico, si riconobbero immediatamente fra di loro, al punto che Talleyrand esclamò: “Abbiamo gli stessi gusti. E infatti ci detestiamo già”. Al che Fouché, algido, rispose: “È basilare per una salda convivenza!”
È evidente che la dirigenza del PD a tutti i livelli è divisa da feroci antipatie personali: del resto tutti quanti, a partire da chi scrive, hanno il loro carico di livori, insoddisfazioni, delusioni, idiosincrasie e conti da regolare. È umano, è inevitabile. Ma se queste antipatie trascendono il livello accettabile e travolgono quei “gusti”, quelle idee comuni che giustificano l’appartenenza ad uno stesso partito (che non è una comunità né una famiglia, evitiamo, vi prego, queste ipocrisie…) allora non sarà più possibile alcuna “salda convivenza”.
Lorenzo Gaiani