Luciano Gallino. Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi.

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Corso di formazione alla politicaE’ perfino superfluo notare quanto la grande crisi economica in atto dal 2007 ad oggi abbia stravolto le premesse generali del dibattito politico così come lo avevamo conosciuto nel primo scorcio del secolo, mettendo in crisi una concezione fondata su di un’indefinita crescita dell’economia capitalistica, la quale avrebbe di per se stessa prodotto effetti di redistribuzione della ricchezza senza alcun tipo di ausilio da parte di fattori esterni, in particolare dell’intervento statale, decretando definitivamente il superamento non solo di ogni ideale di tipo collettivistico, ma della stessa grande invenzione riformista dello Stato sociale. Ciò che veniva nascosto al dibattito pubblico, anche se i segnali erano tutti presenti per chi avesse voluto raccoglierli, era che il sistema economico, il quale si  era progressivamente liberato di tutti -o quasi- i vincoli di natura politica che lo limitavano, sempre meno traeva la propria forza dai modelli produttivi dell’economia reale, quella basata sullo sforzo di raccolta o estrazione delle materie prime e della loro trasformazione in beni di consumo, ma anzi si autonomizzava da essi attraverso l’invenzione di strumenti finanziari sempre più sofisticati che causavano un indebitamento progressivo delle persone e delle famiglie finalizzato all’assicurazione dei beni primari (ed anche di quelli superflui) oltre i limiti del proprio reddito.

Luciano Gallino. Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi.

1. leggi il testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani

2. leggi la trascrizione della relazione di Luciano Gallino

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1 premessa di Giovanni Bianchi 04’16” – 2 introduzione di Lorenzo Gaiani a Luciano Gallino 27’21” – 3 relazione di Luciano Gallino 38’08” – 4 prima serie di domande 15’09” – 5 risposte di Luciano Gallino 15’45” – 6 seconda serie di domande 09’22” – 7 risposte di Luciano Gallino 14’10” – 8 terza serie di domande 12’03” – 9 risposte di Luciano Gallino 09’48” – 10 ultima domanda con risposta e conclusione 04’42”

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Testo dell’introduzione di Lorenzo Gaiani a Luciano Gallino

Le volpi nel pollaio

La terza di copertina di questo libro ci dice che “per prepararsi a scrivere Finanzcapitalismo (parola d’autore) Luciano Gallino ha pubblicato diversi libri sul mondo che è cambiato (…) e sulle forze politiche ed economiche che hanno guidato il cambiamento”. In effetti, ad una lettura superficiale, potrebbe sembrare che in questo libro Gallino si limiti a sintetizzare quelli che sono stati gli argomenti dei suoi libri precedenti, che negli ultimi dieci anni sono stati tutti presentati presso il nostro Circolo, magari attualizzandoli rispetto alle evoluzioni della grande crisi in atto.

Ma sarebbe, per l’appunto, una lettura superficiale, dal momento che l’affresco disegnato da questo libro è ben altro, è cioè la dimostrazione di  come tutte le criticità rilevate da Gallino nelle sue precedenti ricerche, dalla crisi del lavoro alla diffusione del precariato gabellato come flessibilità alla liquidazione del tessuto industriale italiano, dalla diffusione e dal controllo delle nuove tecnologie fino al grande imbroglio del capitalismo per procura, siano altrettanti tasselli di un disegno politico ed economico che si precisa soltanto ora, e che potremmo definire, con le parole di Nadia Urbinati, come la “depoliticizzazione delle relazioni economiche”.

Un progetto politico

In sostanza, infranto il patto keynesiano di convivenza fra democrazia e capitalismo, ci troviamo di fronte ad una reazione ormai trentennale delle forze del capitale, una reazione insieme ideologica, culturale e politica, mirante a ridurre il peso dei ceti sociali più deboli nell’architettura della società.

Tutto questo, Gallino non si stanca mai di ricordarlo, con il beneplacito ed anzi il contributo militante della politica, giacché sarebbe stato impossibile smantellare progressivamente i meccanismi di tutela dei diritti dei lavoratori e le impalcature portanti dello Stato sociale se non fossero intervenute in tal senso decisioni governative e legislative, che hanno avuto come battistrada governi conservatori quali quelli di Margaret Thatcher nel Regno Unito e Ronald Reagan negli USA, cui tuttavia si sono uniti gli esponenti di una sinistra presuntivamente riformista.

Il compromesso keynesiano si reggeva sul riconoscimento reciproco di forze tendenzialmente avverse fra di loro , come quelle che rappresentavano, per semplificare, il capitale ed il lavoro, le quali tuttavia individuavano dei possibili punti comuni in un ampliamento della sfera del benessere e dei diritti dei lavoratori che permettesse allo stesso tempo una ragionevole acquisizione di plusvalore da parte dei capitalisti, mentre lo Stato si faceva garante, attraverso la pressione fiscale e la mediazione nelle situazioni di conflitto, della tutela della pace sociale e della redistribuzione della ricchezza.

La fine della fase espansiva dell’economia globale, specie in Occidente, a seguito dello choc petrolifero degli anni Settanta arrivava a meraviglia a giustificare la reazione neo capitalistica, la quale, constatati i costi oggettivi e crescenti dell’architettura dello Stato sociale, individuava il problema da risolvere non nella lotta contro le disuguaglianze ma proprio nello Stato sociale in quanto tale, partendo col denunciare gli sprechi ed i latrocini della struttura burocratica ed arrivando a mettere in dubbio la legittimità stessa dello Stato a farsi imprenditore e garante del benessere pubblico.

E quindi, se nella fase precedente si riconosceva che la dinamica economica e le relazioni che a partire da essa si instauravano erano parti della dialettica politica, adesso si tende a negarlo, a considerarli come “variabili indipendenti” di una concezione deterministica dell’economia, nella quale lo Stato non entra o magari entra come accadeva nella fase manchesteriana del capitalismo in veste di garante e supporto del più forte.

La crescita di disuguaglianze e povertà 

E’ perfino superfluo notare quanto la grande crisi economica in atto dal 2007 ad oggi abbia stravolto le premesse generali del dibattito politico così come lo avevamo conosciuto nel primo scorcio del secolo, mettendo in crisi una concezione fondata su di un’indefinita crescita dell’economia capitalistica, la quale avrebbe di per se stessa prodotto effetti di redistribuzione della ricchezza senza alcun tipo di ausilio da parte di fattori esterni, in particolare dell’intervento statale, decretando definitivamente il superamento non solo di ogni ideale di tipo collettivistico, ma della stessa grande invenzione riformista dello Stato sociale. Ciò che veniva nascosto al dibattito pubblico, anche se i segnali erano tutti presenti per chi avesse voluto raccoglierli, era che il sistema economico, il quale si  era progressivamente liberato di tutti -o quasi- i vincoli di natura politica che lo limitavano, sempre meno traeva la propria forza dai modelli produttivi dell’economia reale, quella basata sullo sforzo di raccolta o estrazione delle materie prime e della loro trasformazione in beni di consumo, ma anzi si autonomizzava da essi attraverso l’invenzione di strumenti finanziari sempre più sofisticati che causavano un indebitamento progressivo delle persone e delle famiglie finalizzato all’assicurazione dei beni primari (ed anche di quelli superflui) oltre i limiti del proprio reddito.

Il crollo del mercato edilizio negli USA e il conseguente sgonfiamento della bolla speculativa ad esso collegata produceva una reazione a catena che si traduceva nel fallimento di grandi istituti bancari, nel salvataggio forzato di altri attraverso un impressionante pompaggio di risorse pubbliche, e soprattutto nel crollo del sistema produttivo che si traduceva in un’ondata di chiusure e ristrutturazioni aziendali, a loro volta portatrici di disoccupazione di massa.

Nel nostro Paese, dopo essere stata a lungo negata e poi minimizzata, la crisi ha assunto il volto di pesantissime misure economiche in qualche modo imposte dall’esterno, in particolare dalle istituzioni europee (più la Banca centrale, in verità, che non la Commissione o il Parlamento), le quali hanno progressivamente assunto un ruolo commissariale rispetto al nostro Paese, come già con altri Stati ancora più esposti del nostro, in particolare la Grecia. Ciò che preoccupa, in verità, è che al netto degli errori commessi – e il Governo Berlusconi ne ha commessi moltissimi- il procedimento con cui le istituzioni internazionali, agendo sistematicamente al di fuori del controllo politico, ossia in sostanza del consenso popolare, hanno risposto e stanno rispondendo alla crisi è sostanzialmente ispirato alle stesse premesse ideologiche che hanno causato la crisi, e trova un suo elemento peggiorativo nella dichiarata volontà di accantonare la politica nella costruzione delle soluzioni, le quali vengono spesso imposte attraverso dettagliate lettere di istruzioni.

Non è qui in discussione la maggiore o minore qualità di taluni sistemi politici, e la perdita di autorevolezza e credibilità del nostro Paese a livello internazionale negli ultimi quattro anni è un dato oggettivo, ma ciò che appare problematico e poco convincente è il tentativo in atto di accantonare il momento della mediazione politica come passaggio improduttivo e perdita di tempo, laddove il problema reale è l’insofferenza nei confronti di istanze sociali oggettive che pongono il problema dell’equità sociale e per conseguenza dello sviluppo e del rafforzamento di meccanismi di redistribuzione della ricchezza e di tutele di carattere assistenziale e previdenziale a difesa delle classi sociali più povere – o in via di impoverimento, come è il caso del ceto medio popolare nel nostro Paese.

Si pone quindi la questione non solo di una vera legittimazione democratica delle autorità comunitarie europee, ma anche della costituzione di un’autorità politica mondiale, secondo l’auspicio di un recente, e forse non troppo valorizzato, documento del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace : “Tale necessità appare del resto evidente, se si pensa al fatto che l’agenda delle questioni da trattare a livello globale diventa costantemente più ampia. Si pensi, ad esempio, alla pace e alla sicurezza; al disarmo e al controllo degli armamenti; alla promozione e alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo; al governo dell’economia e alle politiche di sviluppo; alla gestione dei flussi migratori e alla sicurezza alimentare; alla tutela dell’ambiente. In tutti questi ambiti risulta sempre più evidente la crescente interdipendenza tra Stati e regioni del mondo e la necessità di risposte, non solo settoriali ed isolate, ma sistematiche e integrate, ispirate dalla solidarietà e dalla sussidiarietà e orientate al bene comune universale”.

L’Italia peraltro, nel quadro di una crisi globale, presenta alcune caratteristiche particolari che rendono il quadro ancora più problematico sotto il profilo sociale. Ci limiteremo ad evidenziarne due.

Un rapporto del 2008 della Banca dei regolamenti internazionali (BRI) ha confermato quanto da tempo i più seri studiosi dei rapporti economici a livello globale sapeva, ossia che il dislivello fra profitti e salari è aumentato vertiginosamente negli ultimi venticinque anni a tutto vantaggio dei primi.

Più analiticamente, secondo quanto riportato dal rapporto in questione, nel 1983 la quota del Prodotto interno lordo (PIL) del nostro Paese che veniva introitata alla voce “profitti” – ossia in sostanza dalle imprese e dai loro proprietari- era all’incirca del 23%, agli stessi livelli del 1960, nella piena fase del cosiddetto “miracolo economico”. La rimanente percentuale, il 77%, era invece destinata ai salari dei lavoratori dipendenti e ai redditi dei lavoratori autonomi. A partire da quell’anno, e con un’accelerazione paurosa nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, la quota dei salari è progressivamente diminuita, e all’ultimo dato esaminato, quello del 2005, i profitti incidono sul PIL per il 31,34%.

Ora, misurando il fatto che i percettori di profitti sono in termini assoluti meno dei percettori di redditi fissi, e tenendo conto che i redditi dei lavoratori autonomi (professionisti, commercianti e così via) sono spesso assimilabili a quelli dei salariati, se ne deve concludere che una quota percentuale alquanto ristretta della popolazione italiana ha visto in questi anni migliorare la propria posizione economica a scapito di una vasta platea che vive in condizioni di progressivo disagio. A ciò si aggiungano fattori più o meno direttamente connessi come la diffusione del precariato di massa e l’introduzione dell’euro senza quelle misure di preventivo controllo sui prezzi posti in essere in altri Paesi, omissione che ha avuto l’effetto di portare ad un aumento ulteriore del costo della vita per le classi meno abbienti.

D’altro canto, il rapporto della BRI non si rivolge solo all’Italia, e dimostra dati alla mano come la rincorsa dei profitti sui salari sia un fenomeno che ormai coinvolge tutto l’Occidente globalizzato (nel 2005 la quota dei profitti sul PIL ha raggiunto il 33 % in Francia e Giappone, il 38% in Spagna e quote ancora più elevate nei Paesi anglosassoni), al punto tale da far dire ad alcuni analisti che di fatto i risultati economici delle conquiste dei lavoratori nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale sono stati erosi, tornando ai livelli del capitalismo manchesteriano.

Il secondo elemento è connesso ad alcune recenti inchieste giornalistiche, e riguarda la distribuzione della ricchezza nel nostro Paese. Le rilevazioni della Banca d’Italia dimostrano come la ricchezza netta degli italiani era pari, nel 2010, a 8640 miliardi di euro. Di questa cifra complessiva il 50% dei 24 milioni di famiglie italiane possiede meno del 10%: ciò significa che 12 milioni di famiglie debbono spartirsi, ovviamente in modo diseguale, circa 860 miliardi di euro. Al vertice si trova invece un 10% di famiglie –circa 2 milioni e 400 mila.- che controlla il 45 % della ricchezza nazionale, con un “nocciolo duro” di un 1% circa 240 mila famiglie, che controlla il 13% della ricchezza nazionale mobiliare ed immobiliare, almeno di quella censita. L’immagine che emerge da tali dati è quella classica della “piramide rovesciata”, con un vertice ristretto che riesce a condizionare non solo la vita economica, ma anche quella politica e sociale di un Paese in cui di fatto il sistema politico è sempre più succube dell’economia.

Le immagini e le parole che vengono dalla Grecia fanno paura, perché si tratta di un Paese dell’ Unione e dell’Eurozona, insomma, qualcosa che ci riguarda da vicino,ma l’impoverimento di massa è una realtà come ci ricorda Gallino, che si ripercuote in forme diverse nel mondo intero, ed assume forme che incidono pesantemente sulle vita delle persone, dal peggioramento delle condizioni di lavoro in termini di sicurezza e di diritti fino alla vera e propria diffusione della fame e delle malattie e alla riduzione delle aspettative di vita, mentre cifre esorbitanti vengono spese per salvare un sistema finanziario decotto. 14/15 trilioni di dollari sono stati impiegati per salvare dal disastro le istituzioni finanziarie: una cifra, sostiene Gallino, che sarebbe stata sufficiente in 25-30 anni a raggiungere tutti gli otto scopi degli Obiettivi del Millennio fissati dall’ ONU per tutti i Paese interessati. Con gli stessi soldi si sarebbe potuto garantire ai cittadini USA un servizio sanitario nazionale paragonabile a quello dei migliori modelli europei (e a quanto pare l’OMS riconosce come parametri di eccellenza i sistemi francesi ed italiano…). Con 15 trilioni di dollari si potrebbero finanziare per 60 anni le spese della ricerca sul cancro e sull’AIDS annualmente effettuare negli USA, e con soli 100 miliardi si potrebbero vaccinare per 10 anni consecutivi tutti i bambini dei 117 paesi più poveri del mondo.

E si potrebbe continuare a lungo: solo che in tutta evidenza le priorità del finanzcapitalismo sono altre.

Le vie d’uscita

Gli ultimi capitoli del libro Gallino li dedica alla ricerca  degli strumenti per quella che definisce la “civilizzazione” del finanzcapitalismo, a partire da alcune necessarie riforme del sistema finanziario globale. Sì, riforme, perché l’approccio di Gallino è e rimane quello di un riformismo, solo che , come sempre, anche questa parola importante e nobilissima ha subito l’usura della “neolingua” (per dirla con Orwell) del pensiero unico che definisce come riformista colui che si adatta alla situazione senza domandarsi se sia buona o cattiva e che più rapidamente di altri concede lo smantellamento dei diritti precedentemente acquisiti.

La diffusione di questo tipo di “riformismo”, soprattutto nel settore delicato del diritto del lavoro, ha fatto sì che ci si dimenticasse della semplice circostanza per cui quelli che oggi vengono dipinti come oltraggiosi ostacoli sull’avanzamento delle magnifiche sorti e progressive del libero mercato non erano i prodotti di chissà quale sconvolgimento rivoluzionario, ma esattamente il frutto di un percorso riformista non sempre organico passato anche attraverso il conflitto sociale ( che è un elemento fisiologico e non patologico in una società aperta e democratica: patologico e mistificatorio è il negarlo).

L’aura mistica che si è voluto creare intorno alla questione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è un po’ la sintesi di questo atteggiamento: il clima da guerra santa alimentato dalle forze della destra economica e politica corrisponde non tanto al fatto in sé di questa norma, la quale incide in maniera assai limitata sulla giurisprudenza del lavoro e non ha mai impedito i licenziamenti collettivi per cause economiche, ma piuttosto alla sua valenza simbolica come fulcro di un diritto specifico del lavoratore. Cassare l’art. 18 avrebbe oggi il significato che ebbe la “marcia dei quarantamila” nel 1980 durante il lungo braccio di ferro alla FIAT, e come allora poco importò che in realtà i quarantamila non fossero tali e che l’intera regia dell’iniziativa fosse in mano ai vertici aziendali, anche oggi poco importano i dati di fatto.

D’altro canto, qual è l’asse d’eccellenza della nostra economia, anche, anzi, in primo luogo, secondo Mediobanca? Sono le 4500 imprese multinazionali tascabili che sono rivolte all’esportazione e che costituiscono la spina dorsale della nostra manifattura.

Ebbene, sono tutte imprese che hanno più di 15 dipendenti e che sarebbero quindi, secondo i pensatori senza concetto ma con molta ideologia, sottoposte a una sorta di malattia: respingerebbero gli investimenti e l’innovazione dei capitali italiani e stranieri, mentre, invece, in realtà sono il plesso che più li attira. Quindi chi dice che l’articolo 18 è un disincentivo alla crescita dimensionale e agli investimenti dice il falso sapendo di mentire. Ma capita sempre più spesso di sentir cose consimili, in un mondo dove non c’è ministro che non lavori o abbia lavorato, in incognito o alla luce del sole, per il turbocapitalismo finanziario che ha provocato 250 milioni di disoccupati nell’area Ocse. Certo che chi non crede che esista il capitalismo, ma invece solo il mercato, non sarà d’accordo con questa affermazione. L’onere della prova spetta a chi ritiene che il mercato senza potere possa esistere.

Germania e Olanda, peraltro, hanno indici di protezione del lavoro che, secondo l’OCSE, sono di gran lunga più alti dei nostri. Cioè in parole povere è molto più facile licenziare da noi che da loro. Basta fare un giro sul web per rendersi conto di quanto sia (relativamente) difficile licenziare senza motivo in questi due paesi. In Germania la soglia di protezione scatta già a cinque dipendenti. Il reintegro – sebbene non obbligatorio per legge – è diventato la norma a causa di un intervento dell’alta magistratura tedesca. In Olanda per licenziare serve l’autorizzazione di una autorità amministrativa. L’Italia è addirittura sotto la media dell’Unione per protezione dai licenziamenti. Cioè siamo già un paese dai licenziamenti facili, come ben sanno i lavoratori. Altro che eccessiva rigidità. L’Italia è un’eccezione? Sì, è vero, ma per la sua bassa protezione del lavoro, non per la mancanza di flessibilità.

Questa lunga digressione è per dire che se le volpi sono entrate nel pollaio è perché qualcuno ha aperto loro la porta, e la colonizzazione delle menti attraverso i virus ideologici ha di necessità preceduto le scelte politiche deleterie che hanno causato la crisi devastante che oggi stiamo vivendo.

Le riforme suggerite da Gallino, a partire da un rigoroso ripensamento del sistema finanziario globale che ne riduca le zone d’ombra, e che passa anche attraverso iniziative come la tassa sulle transazioni finanziarie (c.d. “Tobin tax”) fino a ieri derise come utopistiche ed ora ripescate da politici di destra, sono certamente serie e razionali, ma non è un caso che l’autore le ponga interamente sotto il segno del dubbio, nel senso che la politica non sembra desiderosa di recuperare quell’autonomia intellettuale , quella capacità critica che solo sono necessarie per opporsi alla logica pervasiva del finanzcapitalismo, o anche solo per non esserne totalmente succubi.

Quel che è certo, e Gallino vi accenna nelle pagine finali, è che il persistere delle politiche ispirate ai principi della “megamacchina” provoca sempre più smottamenti e malesseri sociali diffusi, al punto che, come ha denunciato Amnesty International, gli interventi securitari e repressivi anche in Stati di provata democrazia non hanno fatto che aumentare, mettendo a rischio gli stessi principi del costituzionalismo liberale, a segno di quanto sia profondo l’intreccio fra processi economici, processi sociali e dinamiche politico – istituzionali.

Perché dalla crisi si può uscire in molti modi, ma se avesse ragione Colin Crouch, che nel suo ultimo libro afferma che il neoliberismo “realmente esistente” è stato solo scalfito dal suo stesso evidente fallimento, e che le imprese transnazionali che ne costituiscono la spina dorsale si sono rafforzate e non indebolite, dovremmo concludere che le possibilità di un riformismo reale si stanno sempre più riducendo, con conseguenze incalcolabili per la tenuta della democrazia e dello stesso vincolo sociale.

Trascrizione della relazione di Luciano Gallino

Buon giorno a tutti, mi fa molto piacere essere qui con voi ancora una volta, ringrazio Bianchi e Gaiani per aver ritenuto di invitarmi per parlare di un mio libro. Io pubblico un libro all’anno, ma con tutto quel che si scrive cerco anch’io di meritarmi la pensione perché altrimenti qualcuno può dire: ma cosa fanno questi anziani, parassiti, eccetera eccetera. Lavoro, cercando di rendermi utile. Ringrazio in particolare Lorenzo Gaiani per la sua presentazione-introduzione che oltre a mettere in luce la struttura complessiva del libro ha aggiunto anche molti altri punti di grande interesse.

Allora, vista l’approfondita presentazione di Gaiani del mio libro, potremmo anche passare direttamente alla discussione, però forse non posso cavarmela così alla svelta e allora dirò qualcosa sul libro, anche andando un pochino al di là.

Il libro parla per tre quarti dei contenuti di questioni finanziarie, della crisi e delle sue lontane radici (1980 e prima), ma oltre alla crisi finanziaria dedico parecchie pagine a tre altri tipi di crisi che sono strettamente collegati con quella finanziaria.

C’è una crisi immane nel mondo di squilibri, di disuguaglianze, di rapporti insostenibili tra le diverse componenti della popolazione mondiale. Da un lato, il mondo non è mai stato così ricco, quest’anno il PIL del mondo va a superare i 65 trilioni di dollari, ma ha superato i 60 trilioni di dollari già nel 2009. Il mondo non è mai stato così ricco, non ha mai avuto tante tecnologie, tante competenze manageriali e professionali, tanti mezzi per migliorare l’esistenza e la qualità della vita di miliardi di persone. Dinanzi a un mondo immensamente attrezzato e immensamente ricco, possiamo contare le quantità di popolazioni che non ne traggono alcun beneficio e le possiamo contare a un miliardo alla volta.

I popoli da un dollaro al giorno in parità di potere d’acquisto calcolato dalla Banca Mondiale, consumi stimati in un dollaro al giorno o meno, hanno superato nuovamente a causa della crisi il miliardo di persone. Gli affamati hanno superato nuovamente il miliardo di persone, sembrava fossero scesi attorno a 850 milioni (uno può dire soltanto), ma secondo i calcoli della FAO, delle Nazioni Unite eccetera, con la crisi e gli altissimi aumenti degli elementi di base (il riso che rimane un alimento fondamentale nel mondo, il grano, il mais, la soia…), gli affamati hanno superato nuovamente il miliardo. Il dettaglio tecnico è un po’ diverso, ma insomma si tratta di persone che sperano, e non sempre ci riescono, di riuscire a fare almeno un pasto al giorno.

Le persone che vivono in slum, tende, ripari di carton gesso, lamiere, scavi in discariche compattate dal maltempo eccetera, hanno superato di nuovo, dopo uno scatto in diminuzione, largamente il miliardo e si stima che intorno al 2020 possano arrivare a 1 miliardo e 200 milioni, cioè più del 20% della popolazione mondiale.

Secondo l’ultimo rapporto dell’ILOR, l’organizzazione internazionale del lavoro, le persone che hanno un lavoro ma che con quel lavoro non riescono a elevare se stesse e le proprie famiglie, con i loro 2, 3, 4 componenti, al di sopra della linea della povertà da 2 dollari al giorno, sono 900 milioni e la situazione è destinata a peggiorare, perché, menzione l’ultimo grande fattore di squilibrio, le industrie moderne, le manifatture moderne e la produzione anche di servizi moderni mediante le tecnologie, mediante un impiego sempre più raffinato di strumenti elettronici avanzatissimi che permettono di automatizzare tutto, non solo la produzione ma anche il trasferimento, la circolazione di qualsiasi immaginabile bene o servizio, e ancora sta succedendo, sta creando esuberi, e man mano che si modernizza, che avanza e che si afferma, aumenta il numero di persone che sono considerate inutili per la produzione perché sono sostituite da macchine, da robot e da nuovi strumenti di fabbricazione e di comunicazione. Occorrerebbe un ripensamento radicale di quello che si vuole produrre, si dovrebbe produrre, che è veramente utile all’esistenza umana.

Quindi, oltre alla crisi, un’altra crisi è quella degli squilibri gravissimi che stanno, per certi aspetti, devastando il mondo perché questa è la prova. C’è una crisi, che possiamo chiamare crisi umana, una crisi antropologica e l’interrogativo al fondo di questa crisi è un po’ questo: che tipo di essere umano la civiltà contemporanea, la civiltà del denaro (che è il sottotitolo del libro) sta producendo?

Molti anni fa un antropologo famoso, Maxwell Moss, scrisse: “Dentro ogni essere umano risiede una calcolatrice, bisogna evitare che la calcolatrice arrivi a dominare tutto il suo essere, tutto il suo comportamento, tutto le sue idee, la sua mente”. Molti anni dopo, più di due generazioni dopo, è precisamente quello che sta accadendo perché la mitologia neo-liberale in campo economico e in campo politico, in campo scuola, educazione, sanità, previdenza, e in ogni altro settore dell’esistenza umana e della società che ci venga in mente, ha per certi aspetti prodotto in misura sempre più elevata essere umani che sono diventati delle calcolatrici: che calcolano tutto, dagli investimenti agli affetti, dal costo di ogni immaginabile cosa ai rapporti in una famiglia, e su tutto questo c’è un’intensa, feroce attenzione al calcolo. Sono sotto il dominio della ragione puramente strumentale: l’applicazione di mezzi adeguati per ottenere determinati scopi dove ciò che importa poco o nulla è lo scopo.

La ragione oggettiva vorrebbe che, per intanto, si ponessero degli scopi circa il tipo di vita che vogliamo vivere, il tipo di esistenza che vorremmo condurre, il tipo di società in cui ameremmo vivere noi, i nostri figli e i nostri nipoti e dopo di che si predispongono i mezzi perché in quel caso la ragione strumentale è subordinata alla ragione oggettiva e, dunque, a conseguire quei fini; ma se il discorso, il logos, il linguaggio della ragione oggettiva, quella che ha a che fare con gli scopi che dovrebbero dare un senso all’esistenza, praticamente scompare e tutto diventa calcolo per fare qualsiasi cosa di cui non ci sia affatto lo scopo, la finalità, l’importanza, questo è un degrado sostanziale non solo della civiltà nel suo insieme, ma dello stesso essere umano.

Infine, la terza crisi (sono tre, più una crisi finanziaria) è la crisi ecologica che con la crisi del credito, la crisi finanziaria, la disoccupazione e tanti altri temi è caduta nello sfondo, ma oramai è chiarissimo che sia accaduto qualcosa di irreparabile, e che stia accadendo qualcosa di irreparabile è molto rilevante.

Una fondazione inglese che cito nel libro scriveva nel 2008 (io ho scritto il libro ai primi del 2011): “Abbiamo 100 mesi per salvare la terra”; cento mesi sono otto anni scarsi e quindi dal 2008 più 8 fanno 2016. È possibile che abbiamo qualche anno in più, ma è anche possibile che gli anni in più non siano molti prima che qualcosa di irreparabile avvenga, nel senso di sistemi indispensabili per sostenere la vita che sono irrimediabilmente compromessi, mentre tutto continua come prima e ogni immaginabile progetto di sviluppo o di crescita dell’Italia, o di ogni altro paese non fa differenza, seguono sempre il vecchio modello, di usare il maggior numero possibile impiegando la maggior quantità possibile di energia per produrre qualsiasi cosa, perché questo valorizza, naturalmente fa appeal, aggiunge qualità alla vita anche quando questo è dimostrabilmente non vero e così via.

Ha scritto un grande sociologo francese, Edgar Morin: “Abbiamo costruito un meraviglioso aereo, dotato di pilota automatico, dopo di che il pilota è sceso e l’aereo vola da solo e in lontananza, non si sa quanto lontano, c’è una bella parete di montagna, molto più alta della quota a cui vola l’aereo”.

La crisi finanziaria è strettamente intrecciata a tutto questo, è in parte un complemento, in parte è anche una causa perché se tutti vedono unicamente una qualsiasi cosa, che so, in ogni campo, in ogni bosco, in ogni pezzo di spiaggia, unicamente qualcosa da valorizzare, per ragioni finanziarie, perché di lì vengono utili, profitti, salari, o altro, beh, se non 100 mesi potremmo averne qualche decina in più, ma dovremmo cominciare a ripensarci.

Vengo alla crisi: segnalo alcuni punti, poi discutiamo.

La crisi è consistita essenzialmente nella creazione di denaro, per mezzo di denaro, utilizzando come strumento la titolarizzazione, ossia la trasformazione in titoli di tutto, a cominciare dai crediti, tipo i mutui per la casa, in particolare i mutui ipotecari per la casa, ma anche molte altre cose: il prestito per comperare automobili, il prestito agli studenti, il prestito a una azienda che vuole affittare un capannone e mille altre cose: sono almeno una ventina i tipi di crediti che sono stati assoggettati a questa trasformazione.

Un prestito, un credito per chi lo concede e un debito per chi lo riceve, diventa un titolo. Il termine italiano infelice perché è vecchio, è cartolarizzazione, e il fatto è che i titoli cartacei che i nostri genitori, i nostri nonni tenevano nel cassetto, belli verdi, con grandi caratteri, non esistono più.

Ogni titolo, come ogni forma di denaro, tranne i pochi soldi che abbiamo nel portamonete, tutto è messo in codice in qualche computer. La creazione di denaro usando come strumento di conversione la cartolarizzazione, la titolarizzazione, ha una storia abbastanza lunga ma ha avuto un’espansione forsennata per ragioni anche politiche, per via della liberalizzazione, la produzione, i titoli derivati, per via della caduta di molti effetti di attività bancarie, ha avuto un’impennata soprattutto negli anni 2000, fino a quando c’è stato il grande botto nell’agosto 2007, seguito poi dai crolli di molte banche poco dopo, nel settembre-ottobre 2008.

La trasformazione di crediti in titoli commerciali ha dato origine a intensi movimenti di denaro che man mano che uno li studia e li approfondisce fanno venire semplicemente le vertigini. Che cosa succede? Una banca concede dei mutui ipotecari, serve alla banca concedere migliaia e migliaia di prestiti ipotecari, di mutui ipotecari; a un certo punto ne vende qualche migliaio a una società di scopo che essa stessa ha creato, che si chiama veicolo o condotta per l’investimento strutturato: è una società indipendente dal punto di vista legale, in realtà si chiamano entità sponsorizzate dalle banche che dipendono pur sempre da una banca, però sta il fatto che il titolo, un canestro di titoli, viene venduto a una società di scopo appositamente creata. La società di scopo prende i titoli di primo livello che può emettere lei, ma che può aver emesso già la banca, che si chiamano titoli che hanno per garanzia, per collaterale, un attivo di qualche tipo (l’attivo è il credito che la banca ha concesso).

Bene, prende un centinaio di questi titoli, ciascuno dei quali contiene mille prestiti, mille titoli o crediti, e confeziona dei supertitoli che si chiamano obbligazioni che hanno per collaterale un debito e poi li vende a fette a investitori istituzionali. La banca che ha venduto i prestiti cosa fa di questi soldi? Li utilizza per diverse cose: prima di tutto, per concedere altri prestiti (è il motivo per cui li ha venduti e così ha la possibilità di concedere altri prestiti); una certa quota li versa alla banca centrale sotto forma di riserva perché per ogni tot di capitale prestato una banca deve avere un quanto di riserva. Con il capitale che ha ricevuto dai suoi siti, dai suoi veicoli, che sono centinaia (soltanto le banche italiane che li hanno creati sono almeno trecento, per non parlare delle banche europee e americane, molti stanno naturalmente nelle isole del tesoro, e come tali non stanno solo nei Caraibi, ma non mancano nelle isole britanniche e altrove), comunque la banca usa anche una parte dei soldi che ha ricevuto per concedere prestiti oppure per acquistare una parte degli stessi titoli che sono stati creati dalla sua società di scopo.

E questi soldi freschi li presta a un’altra banca che gli dà come collaterale, come garanzia, un pacchetto di titoli del tutto simili che la banca tiene nel suo portafoglio o li trasferisce a un veicolo che li metterà sul mercato degli investitori istituzionali, ma anche sul mercato, che so, degli enti territoriali. Titoli di questo tipo in Italia vogliono dire almeno tre-quattro miliardi e forse più che stanno nei comuni, nelle regioni e in altri enti pubblici.

Mi fermo qui perché io studio queste cose da molti anni e veramente ogni tanto mi gira la testa perché quello che ho riassunto è meno di un decimo, meno di un ventesimo del meccanismo effettivo che comprende, per concludere, un vorticoso giro di prestiti a breve termine, che poi magari diventano a medio o a lungo termine, tra banche. Perché quei titoli che hanno per collaterale un debito possono essere usati per collaterale, ovvero per garanzia, per ottenere un prestito, dopo di che con quel prestito si può prestare a un’altra banca ricevendo per collaterale titoli dello stesso tipo emessi da un altro emettitore.

Quello che è successo in questa sorte di gigantesco sistema grave, chiamiamolo così, che interconnette tra loro diverse banche, ma soprattutto le prime 40-50 grandi banche del mondo, è che si è inceppato qualcosa, delle tubazioni sono saltate, altre tubazioni si sono rotte, altre tubazioni si sono otturate per un motivo in fondo semplice, ma che ha rischiato nel settembre-ottobre 2008, di portare l’economia mondiale al collasso.

Il meccanismo alla base del blocco è stato un po’ questo: tu mi dai in prestito non tanto, 100 milioni di dollari, e io ti dò come collaterali i titoli che hanno come appoggio, come garanzia, dei prestiti ipotecari. Ha funzionato per un po’ di anni fino a quando dall’altra parte la banca a cui si chiedeva un prestito ha chiesto: ma quanto valgono i collaterali che tu mi stai dando? Mah, ti assicuro…, ho sentito che ci sono stati dei problemi di rimborso da parte dei prestatori, eccetera. Se vuoi 100 milioni di dollari in prestito, non basta più che mi dai 100 milioni di dollari nominali come titoli in quanto collaterali, bisogna che me ne dai almeno 120 milioni. E la volta dopo la richiesta era di 150 milioni perché tutto andava peggiorando. E la volta dopo ancora, 200 milioni che però la banca che voleva il prestito non aveva più, perché aveva esaurito i titoli che aveva in cassa, così come aveva esaurito i soldi.

C’è stato un blocco complessivo di circolazione dei prestiti che è il processo sul quale vivono le banche. Le banche si passano ogni notte centinaia di miliardi di dollari e di euro su scala mondiale, su base nazionale centinaia di migliaia. Questo meccanismo si è bloccato e i problemi si sono trasferiti immediatamente all’economia reale, perché nel giro di un anno, tra il 2007 e il 2008, sono spariti due trilioni di prestiti per la casa, quelli che erano stati concessi nei due anni precedenti, e non c’era più nessuno che li volesse concedere. Ma senza prestiti per la casa si ferma la produzione e il mercato delle costruzioni. Mercato delle costruzioni vuol dire non solo mattone, vuol dire bulldozer, vuol dire geometri, vuol dire indotto, vuol dire impiantistica, vuol dire riscaldamento, vuol dire sale da bagno, vuol dire serramenti, vuol dire tetti e mille altre cose che producono le industrie che hanno visto azzerarsi le commesse.

L’invenzione che sembrava sublime, che sembrava l’innovazione che era stata cantata… C’erano delle riviste che dicevano in copertina: siamo oramai in vista di un indice Dow Jones (il principale indice industriale americano) che supera i 30.000 punti. Siamo a molto meno della metà e il famoso indice tecnologico, il Nasdaq, che aveva superato i 5.000 punti è sceso in poche settimane a meno di 2.500 punti e lì è rimasto ancora oggi, molti anni dopo, perché il crollo del Nasdaq ha preceduto quello finanziario ed è ancora a quel punto. Quindi, crisi finanziaria e ricaduta fortissima sull’economia reale. E dato che poi gli Stati Uniti rimangono il primo mercato del mondo e producono poco di quello che consumano, soprattutto di beni industriali, questo ha voluto dire caduta della domanda nei confronti dell’Unione Europea, della Cina e così via.

Secondo punto sul quale richiamo la vostra attenzione. Nella crisi un ruolo fondamentale è stato svolto dalle banche europee. Le banche europee hanno partecipato massicciamente alla creazione di titoli che hanno per collaterale un debito direttamente con le loro filiali statunitensi, soprattutto la Deutsche Bank, il Credit Suisse, l’UBS Unione delle banche svizzere e la Banque BNPParibas di Parigi. Hanno comprato trilioni di Euro di quei titoli americani perché avevano la tripla A, perché le tre sorelle Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch avevano concesso a quei titoli la tripla A senza minimamente guardarci dentro. I rapporti discussi sono due diversi, 650 pagine, 1.200 allegati (c’è da divertirsi) presentato ai rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti, e l’altro al Senato, beh, contengono pagine agghiaccianti su quello che hanno fatto le agenzie di rating in quel caso.

Ci sono agenzie, mi pare Moody’s (lo cito da qualche parte), che concedevano la tripla A a titoli emessi in quel modo, scambiati eccetera, al ritmo di 45 mila al mese, 45 mila tipi di titoli al mese. Ciascuno di quei titoli al primo livello può comprendere come minimo 1.000 mutui ipotecari, trasformati in titoli, e un titolo di livello superiore, cioè un’obbligazione che ha per collaterale un debito, può contenerne 5 o 6.000. Come fa uno a valutare l’assolvibilità dei debitori che sono più di 5.000, che sono aziende, studenti, famiglie, imprese eccetera. È stata coniata in questi rapporti l’espressione, la dizione, “firma a robot”, robot signing. Assegnavano la tripla A perché erano pagate dalle banche che emettevano quei titoli. Sta scritto nei rapporti presentati al Congresso degli Stati Uniti.

Dato che avevano la tripla A, le banche europee li hanno comprate a valanga perché erano assetate di titoli che avessero la tripla A, che fossero super sicuri. Li hanno prodotti anche in Europa, anche nell’Unione Europea, e anche qui la Deutsche Bank si è particolarmente distinta con un titolo che si chiamava “James Stoner” in diverse edizioni che erano obbligazioni. Si chiamano obbligazioni quelli che hanno come collaterale un titolo. Voi pensate all’obbligazione, quanto vale un’obbligazione? Mediamente, un’obbligazione Enel? Un’obbligazione della Regione Lombardia? 1.000 Euro, 5.000 Euro? Quelle obbligazioni avevano come valore nominale un miliardo e mezzo di Euro, tanto che erano vendute a fette che tutti si potevano comprare. Mezzo milione di Euro, 300 mila Euro, cose da piccoli risparmiatori. Ne hanno prodotte per molte decine di miliardi di Euro.

Le banche europee, a forza di comprare tutto il comprabile, hanno comprato anche moltissimi titoli pubblici perché rendevano molto, perché il titolo pubblico rende il 2, 3, 4, 5%, il cosiddetto titolo sovrano, e hanno fatto cose più o meno inenarrabili: Tra quelle che hanno fatto cose inenarrabili ci sono le banche tedesche, e in particolare le Länders Bank, le banche regionali, che sono proprietà di Casse di Risparmio, che sono delle banche perché solo con il 2008-2009 mettevano in fila, come grandezza, come attivo, le concorrenti banche tedesche. Bene, 15 Länders Bank, di queste banche degli stati regionali che hanno concesso prestiti, che sono andate a speculare in Estonia, in Tanzania o in altre parti del mondo, hanno emesso loro stesse dei titoli un po’ più piccoli ma comunque rischiosissimi, ne hanno fatto veramente di tutti i colori e nel 2008-2009 tra i primi fallimenti grandiosi nel mondo ci sono stati quelli di queste banche tedesche, sia Länders Bank sia altre.

La prima banca che fallisce al mondo, che viene nazionalizzata con il modesto esborso di 110 miliardi di Euro da parte del governo tedesco, no, scusate, da parte del governo inglese, è la Northern Brokers nel febbraio 2008, sei-sette mesi prima del crollo della Lehman Brothers negli Stati Uniti. Nel Regno Unito crollano la HBOS, queste qui erano peanut, noccioline, 9 miliardi di sterline, la Royal Bank of Scotland, ottobre 2008, quasi contemporanea alla Lehman Brothers, 28 miliardi di sterline di perdite che il governo compensa.

Alla banca centrale britannica, che è ancora una vera banca centrale diversamente dalla banca centrale europea, questi sono costati in complesso tre milioni di sterline, cioè circa due trilioni di Euro. Falliscono quasi tutte le banche irlandesi, in Germania fallisce la Ipo Real Estate, la banca tedesca specializzata nell’immobiliare come dice il nome, che riceve a più riprese dal 2008 al 2009 142 miliardi di Euro di contributi statali. Falliscono la Fortis Bank, la banca delle assicurazioni che viene assorbita dalla francese BNPParibas. La Svizzera, dove i banchieri sono tutto, non si muove un franco senza la loro attenzione, sono tantissimi, rivedono a fondo la situazione di chi domanda un prestito di 10 mila franchi per comperare un’automobile, nel 2009 è costretta a cancellare dal bilancio 50 miliardi di franchi di titoli che si sono rivelati inesigibili.

In complesso, l’Europa, compresa la Svizzera, ha impegnato o speso direttamente nel salvataggio circa tre bilioni di Euro, tre mila miliardi di Euro. Rispetto ai 15 miliardi degli Stati Uniti non sono gran che, ma insomma…

Il problema con cui concludo è un po’ questo: che il problema principale dell’Unione Europea non è affatto il debito pubblico. La crisi è stata in parte scaricata dalle banche sui bilanci statali perché i bilanci statali sono stati dissanguati dai contributi che vi ho detto, meno in Italia, ma il fatto è che il sistema finanziario è talmente intrecciato che in fondo non fa differenza da un paese all’altro, se uno spende un po’ di più o spende un po’ di meno. In parte, c’è stato un effettivo salasso dei bilanci pubblici a solo vantaggio delle banche, e poi c’è stata un’abilissima operazione, mastodontica, massiccia, di disinformazione che ha presentato, a partire dal 2010, la crisi europea come la crisi dei bilanci pubblici mentre la crisi europea è una crisi del debito privato delle banche.

Concludo con qualche cifra. In Germania alla fine del 2010, quando si cominciò a dire forte che il debito pubblico è insostenibile, che abbiamo vissuto tutti sopra i nostri mezzi, che i pensionati sono troppo esigenti e bisogna tagliare le pensioni, e non parliamo di salari perché uno deve guadagnarselo… (in Grecia attualmente c’è qualcuno che deve pagare per mantenere il lavoro, non è uno scherzo, come si dice viene pagato negativamente, cioè dopo una settimana di lavoro è in debito, però se vuole continuare a lavorare quello è il costo). Bene, alla fine del 2010 il bilancio pubblico tedesco aveva un onere pari all’83% del PIL, ma le banche avevano un debito complessivo privato del 98% del PIL.

La Francia aveva un debito pubblico dell’87% del PIL, ma le banche avevano un debito complessivo del 151% rispetto al PIL. Il primato era quello della Gran Bretagna, che poi spiega agli europei come si fanno i buoni bilanci; perché nel 2010 il bilancio pubblico dello stato in Gran Bretagna era l’81% del PIL, ma il debito delle banche era il 547% del PIL. Ho visto i dati 2011 e il debito delle banche ha superato il 600% del PIL.

Il problema su cui concludo, l’ha accennato molto bene il professor Gaiani, è che i governi europei hanno scelto di salvare le banche a spese dei loro cittadini. Grazie.

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1 commento

    • Mirosław Sojnowski il 12 Novembre 2019 alle 14:55

    Wspaniały tekst. Bardzo rzeczowy i merytoryczny, co najważniejsze; dokonujący prawdziwej analizy kryzysu. Serdecznie pozdrawiam Pana Luciano Gallino i profesora Lorenzo Gaiani.

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