Opporsi al capitalismo di guerra

Il fallimento, secondo alcuni, del modello economico legato alla “globalizzazione”, cioè di quel processo di connessione tra nazioni ed aree geografiche del pianeta che ha riguardato gli ambiti appunto economici ma anche politici, sociali e culturali; che ha aumentato esponenzialmente gli scambi commerciali e finanziari così come la circolazione di persone ed idee, la messa a disposizione di informazioni e tecnologie, ha finito poi per involvere verso una accentuazione delle diverse forme di nazionalismo.

Certo perché non sono state tutte “rose e fiori” la globalizzazione ha portato con sé sicuramente alcuni vantaggi: ha creato ad esempio un mondo sempre più interconnesso ed interdipendente, ma ha anche generato enormi squilibri e disuguaglianze.

Le masse popolari messe ai margini dai processi globalizzativi hanno in più occasioni convogliato il loro disappunto generato essenzialmente dalla paura e dalla necessità, verso forme di rappresentanza che enfatizzavano i vantaggi legati a politiche autarchiche, ed un controllo “muscolare” dei flussi migratori visti in questa prospettiva come una minaccia verso le posizioni di favore conseguite; questi ultimi sono certamente tratti distintivi di una visione del mondo conservatrice, segnatamente di destra quand’anche di destra estrema, che normalmente sono incarnati nell’archetipo dell’ “uomo solo al comando”, cioè da un politico dai connotati decisionisti e da modalità operative spicce e spesso brutali.

Altra valvola di sfogo per le compagini emarginate ed ormai molto disilluse è risultato l’astensionismo in occasione delle diverse tornate elettorali, che per quanto riguarda il nostro Paese ha toccato un vertice preoccupante in occasione delle recenti elezioni europee del 2024, scendendo sotto la soglia psicologica del 50% degli aventi diritto, per non parlare dell’esito degli ultimi referendum dove il quorum non è stato raggiunto come peraltro è  già accaduto spesso da diversi anni a questa parte.

Si assiste così ad un progressivo senso di sfiducia generalizzato nelle forme e nelle istituzioni democratiche, cioè al fatto che una folta compagine di cittadini non crede più nella possibilità della soluzione dei loro problemi attraverso le urne, mentre di converso il dovere civico del voto è esercitato da un gruppo ristretto di persone, verosimilmente appartenenti ai ceti benestanti, per i quali il “sistema” è accettabile ed in fondo va bene così com’è. 

La logica del “capitalismo di guerra” si inserisce in questa temperie sociale, come una sorta di “distorsione” delle dinamiche di mercato le quali vengono piegate alle esigenze belliche, peraltro spesso con un ruolo attivo dello Stato, determinando un notevole arricchimento delle aziende del settore, oltre che ingenti profitti connessi in seguito alla fase della ricostruzione, con il pesante corollario però dovuto agli “effetti collaterali” costituiti dalle enormi perdite umane segnatamente nella compagine civile.

Alcuni analisti considerano con una buona dose di pragmatismo l’industria bellica come un facile sbocco per quelle “economie mature” che non presentano nel breve periodo possibilità di sviluppo future connesse ai processi di innovazione, vuoi perché hanno investito poco in ricerca & sviluppo, vuoi per il fatto che anche quando la ricerca è ben sovvenzionata e qualificata, sono necessari tempi lunghi per trovare eventuali nuovi spazi di mercato.Comunque il “capitalismo di guerra” non si è affermato a causa dei due sanguinosi conflitti in corso in Ucraina ed in Palestina sulla Striscia di Gaza (ma anche in Cisgiordania), i quali hanno ragioni scatenanti differenti; tuttavia gli stessi rappresentano in parte per così dire una “evoluzione” in senso negativo di un trend  già in corso da tempo, che si avvale di un mix di ingerenza statale intesa ad eterodirigere certi settori dell’imprenditoria privata, unito con politiche sovraniste protezionistiche, o addirittura espansionistiche neocoloniali,  che creano una conflittualità permanente con altre nazioni, tanto che si può parlare in alcuni casi di una “guerra economica” perenne.

La politica dei dazi voluta dall’America di Trump avrà probabilmente un impatto planetario, al netto delle imprevedibili evoluzioni sulla partita, e degli esiti dei tavoli di negoziazione che inevitabilmente si continueranno, non sempre così favorevoli nemmeno per la nazione che ha voluto in questo modo promuovere le imprese autoctone.

Probabilmente gli stessi dazi sono una spia di una certa debolezza dell’economia interna degli USA, e che si vuole fare grande l’America scaricandone però il costo sul consumatore finale; probabilmente producendo certo una riduzione delle esportazioni verso il “nuovo continente”, ma a seguito della quale si potrebbe prefigurare per le imprese più strutturate una diversificazione verso altri mercati.

Il “contesto di guerra” però favorisce un certo senso di pericolo diffuso e quindi è molto più facile far passare politiche di riarmo che poco hanno a che vedere con minacce esterne effettive; così il ventilato aumento delle spese fino al 5% del PIL nel Belpaese, al di là degli artifizi contabili, finirà probabilmente con l’intaccare la spesa sociale, e non aumenterà con la deterrenza la sicurezza nazionale ed internazionale.

Forse sarebbe meglio affidarsi a quel detto che dice che “dove c’è commercio non c’è guerra”, cioè a quella saggezza popolare la quale suggerisce che dove c’è il mercato le persone e le nazioni diventano interdipendenti, e quindi meno inclini a generare i conflitti, anche se va detto in tutta onestà che questa è una semplificazione che storicamente non sempre è stata in grado di promuovere la pace. Una schematizzazione certamente ma con un suo fondamento.

Un tema invece indubitabilmente più pregnante è quello che le democrazie che si trasformano in plutocrazie capitaliste possono benissimo fare a meno appunto della democrazia, rivoluzionando i sistemi liberali in senso autocratico, cambiando nel profondo (e forse per sempre) i paradigmi economico-sociali così come li abbiamo conosciuti fino ad oggi.

Dobbiamo per forza arrenderci a questa deriva inaccettabile di un permanente “capitalismo di guerra”?   In questi giorni si è celebrato il trentesimo anniversario dalla scomparsa di Alex Langer, il politico ante litteram Altoatesino che con le sue “utopie concrete” invitava a “costruire ponti e saltare muri”, a non separare la causa della pace da quella dell’ecologia, anzi a praticare la “conversione ecologica”. Di fronte ad un neoliberismo che ha evidenziato i limiti della globalizzazione superandoli in senso escludente, alla protervia estrattivista e produttivista, all’assunzione del consumismo come leva fondamentale della crescita, al negazionismo sulla crisi climatica, alla fallace via del riarmo, Alex proponeva un mondo più “lento, profondo e soave”.   In sostanza al paradigma della competizione per andare “più veloci, più in alto, più forti”, mito dai chiari contenuti anche potenziali orientati al conflitto, Langer esprimeva una visione più equilibrata della società, e soprattutto sostenibile per la nostra “casa comune”, la Terra. Alla competizione, quinta essenza della nostra società, si può contrapporre la collaborazione e la cooperazione.  

Ad “Alex, uomo per gli altri” il fondatore del nostro circolo Giovanni Bianchi poco prima di lasciarci ha dedicato l’omonimo ebook pubblicato sul nostro sito, definendo il politico Trentino “…non solo l’amico, non solo il più grande tra i Verdi italiani, ma il testimone e il maestro di una politica che prende ogni volta le mosse dalle contraddizioni del quotidiano (le avremo sempre con noi) e pensa e sperimenta  i modi per sortirne insieme…”

Il testamento spirituale di Langer a “continuare in ciò che è giusto” all’attualità ci incita a respingere le ragioni del “capitalismo di guerra”, un ossimoro concettuale pernicioso soprattutto per i segmenti sociali meno strutturati. A chiedere invece con forza un cambiamento di paradigma da quell’economia che in senso letterale uccide secondo le parole di papa Francesco, e ad approfondire invece le possibilità dell’ “ecologia umana integrale”, cioè l’interconnessione tra ambiente, economia, società, promuovendo uno stile di vita che tenga conto del bene comune.

Andrea Rinaldo

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